I consumatori finalmente «sanno e sono liberi di scegliere se comprare o meno un certo prodotto», ha sentenziato ieri la neopaladina delle oche Milena Gabanelli, dopo essersi presa sostanzialmente della scema dal papà di Prada, Patrizio Bertelli, per aver fatto apparire la Moncler una sorta di sadomasochista che spenna le sorelline di Paperina, affama i suoi fornitori e buggera la clientela con prezzi che sanno di rapina.

Ora a lady Gabanelli dobbiamo diverse inchieste meritorie, ma questa volta ha sbagliato di grosso. Insomma, lasciateci dire che i radical chic delle piume ci hanno proprio rotto le scatole. Perdonate lo sfogo poco politically correct in un blog nato paludato, ma non ce la facciamo più ad assistere alla “grande porcata” (il copyright è di un banchiere d’affari milanese) consumata da quegli italiani, che si sentono «moralmente e antropologicamente superiori», per cercare di distruggere uno dei marchi più gettonati del  lusso made in Italy. Non ce la facciamo più, perché alla base c’è un servizio andato in onda sulla  tv di Stato, e quindi reso possibile dai soldi di noi contribuenti, visto che mamma Rai non avrebbe equilibrio economico  se non si mettesse in tasca il canone.

Prima di continuare in quella che alcuni tacceranno come una marchetta preferiamo  autodenunciarci: quando parliamo della Rai, possiamo essere accusati di un potenziale conflitto di interessi con la concorrente Mediaset (Fininvest possiede, infatti, sia la tv del biscione sia Mondadori che è socia di minoranza del Giornale). Quanto a Moncler, sappiate che fa pubblicità sul Giornale (così come su quasi tutta la stampa nazionale) e che con questo gruppo Wall & Street hanno un  “conflitto di simpatia”  perché i suoi piumini super-imbottiti ci ricordano la metà degli  anni ’80  e le cotte adolescenziali tra gli stivali Durango, le borse della Naj Oleari e le Zundapp in sosta davanti alle vetrine di Burghy.

A questo punto, liberata la coscienza, possiamo procedere. Sappiamo che perbenisti di ogni schiatta ci copriranno di insulti, ma non ce ne importa, perché  in gioco c’è la reputazione della moda e del lusso, uno dei pochi rami industriali che ancora danno frutto in una Italia dal prodotto interno lordo in coma, come si è visto anche di conti trimestrali delle  banche che iniziano a fluire in Piazza Affari. E questo un uomo intelligente come Bertelli lo sa benissimo.

Cari criticoni radical chic,  prima di prima sbuffare come asini (con rispetto per i signori quadrupedi, casomai ci querelassero) in segno di disprezzo per come, secondo quanto ha mostrato Report, Moncler maltratterebbe gli animali e gestirebbe  la sua catena produttiva per  guadagnare aggirando le leggi e financo l’umana pietà, vi chiediamo di ricollegare il cervello con i fili della realtà.

Partiamo dal denaro. Nell’Eurozona, ci piaccia o no, esiste il mercato unico del lavoro, e quindi non ha alcun senso criticare un’azienda che delocalizza alcuni passaggi produttivi in Paesi o si approvvigiona dove trova manodopera a basso costo, né ha senso fare la morale del guadagno per il ricarico che applica la Ferrari. la Kartell o un chi produce tondini a Brescia : la brava Milena sa benissimo che il costo di un prodotto non si può ridurre a quello necessario per produrlo. Al contrario, bisogna conteggiare gli investimenti in marketing e creatività, quelli immobiliari, le spese d’esercizio degli uffici centrali e dei negozi, gli stipendi degli addetti. E poi, diciamocela tutta, se Mister Remo Ruffini riesce a vendere i giubbotti con  il gallo rosso-blu a 800, 1.000 anche 1.200 euro, fa bene a farlo (entrate nella boutique in via della Spiga e vedrete). Se non vi fidate di noi, ecco qui sotto i conti dei primi nove mesi di Moncler. Come vedete l’utile operativo (cioè quello prima degli interessi passivi sul debito e delle tasse) è di tutto rispetto poiché si attesta a oltre un quarto del fatturato. Su ogni euro incassato, Ruffini e i suoi soci (tra i quali anche i piccoli azionisti) guadagnano 25 centesimi: è molto se confrontato con altre realtà industriali, non è tantissimo se paragonato a realtà finanziarie di primo piano (senza fare nomi e cognomi – altrimenti i concorrenti si arrabbiano per non essere stati citati e poi vai a spiegare che si trattava di un esempio – una banca d’investimento italiana che sappia gestire bene la forza lavoro guadagna molto di più in proporzione).

Piuttosto perché lady Gabanelli non fa i conti di quanti soldi ruba a tutta la moda italiana (e quindi a tutti i ragazzi in cerca di un impiego) la malavita organizzata con i prodotti contraffatti? O, se proprio volesse fare i conti della serva, perché non domanda come mai l’incremento di prezzo dei piumini sia superiore al tasso di inflazione cumulata? Wall non ha mai avuto un piumino Moncler perché assomiglierebbe all’omino Michelin, Street lo ha acquistato solo l’anno scorso (e può produrre lo scontrino) perché sotto sotto ha un’anima «mod» e ritiene più adatto il giaccone alle luci della city milanese (Wall sospetta che da qualche parte nasconda addirittura un paletot della Fay). Nel 1987 – quando avevano 14 anni e gli amici paninari facevano i fighi col piumino – il Moncler costava 600mila lire che aggiornate ad oggi a valori invariati (un’ipotesi realistica alla luce dell’andamento del costo del lavoro e della materia prima, un po’ meno se raffrontata al costo dell’energia e del marketing globale), equivalgono a circa 720 euro, più o meno quello che chiede oggi Ruffini peri modelli  da uomo che si fermano alla cintura. In ogni caso noi siamo a favore del libero mercato e quindi non facciamo una questione neppure sui capi che costano 300-400 euro in più e sono preferiti dalle donne per il vezzo del pelo che ne cinge il collo.

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Passiamo al tema più discusso (e discutibile):  i diritti sociali delle oche. Ok, criticatici per il sarcasmo, ma ricordatevi che tutti noi, vegetariani e cacciatori a parte per ragioni opposte, viviamo maciullando sotto i denti e sciogliendo nello stomaco pezzi di animali, che non solo sono stati uccisi dall’uomo ma che non hanno neppure vissuto come Natura vorrebbe, che sono stati rinchiusi in gabbie e recinti dove i loro arti si atrofizzano e sono tenuti svegli dalla luce di un faro. Ora vi chiediamo: perché tanta indignazione per le oche spiumate vive e ferite, ma non per pulcini, caprette e vitelli smembrati?  E’ vero cibarsi è indispensabile per vivere mentre il fashion è un vezzo, ma è altrettanto verso che per sostentarsi non è obbligatorio mangiare cuccioli di animali (come i vitelli e maialini da latte) e ancor meno il  foie-gras: chiedetelo alle oche!

Tralasciando il fatto che, come qualsiasi altro produttore, Moncler e i  suoi concorrenti si appoggiano a diversi fornitori e terzisti, di cui difficilmente controllano l’agire quotidiano, è mai possibile che nessuno dei geni che su Facebook e Twitter si sono indignati per la sofferenze dei nostri amici piumati, abbia mai visto gli occhi di un animale prima che venga ucciso al macello? Nessuna di queste persone ha osservato, magari a distanza, il nonno sgozzare polli e tacchini da mettere in pentola a Natale con le patate arrosto o  scuoiare (usiamo termini duri ma veritieri) conigli che, pochi mesi prima, avevano tenuto in braccio e accarezzati? A Wall & Street è capitato, a volte siano stati tristi e il nonno ci è parso crudele, ma in breve tempo abbiamo capito che questa è la catena alimentare. E abbiamo sentito raccontare da persone care ormai scomparse che, quando loro erano ragazzi, appena finita la Grande Guerra, non c’erano lacrime più vere di quando un contadino perdeva il suo cavallo o la sua mucca. Questo, però, non perché le bestie fossero umanizzate ma perché erano compagni di lavoro. Importanti, importantissimi ma animali. Ora invece l’Italia cittadina li vede come dei peluche della Trudi, da coccolare e proteggere, da abbracciare nel letto durante il sonno.

Dovrebbe poi fare davvero riflettere il fatto che nessuno dei concorrenti di Moncler abbia immediatamente alzato la mano, urlando che i suoi piumini hanno appena vinto il «Premio Bontà» del Wwf e della Lav, che hanno per l’occasione arruolato direttamente delle oche come giurate d’eccezione.  Se un gruppo potesse dire «le nostre oche non si accorgono nemmeno di essere spiumate e poi le mandiamo in viaggio premio nei mari caldi per ricambiare del maltolto», se potesse dimostrare tutto questo, avrebbe a disposizione un messaggio pubblicitario efficacissimo e a poco costo. Così come non è pensabile che tutti i piumini di ogni ordine e grado siano prodotti con piume tratte da oche allevate per uso alimentare: svegliamoci, macellerie e supermercati dovrebbero essere stracolmi di carne di oca in tutti i periodi dell’anno e non proporla, come prodotto di nicchia a Natale. La stessa Assopiuma ha peraltro risposto alla Lav, ricordando che «in Europa esiste una legge (art. 3 Direttiva Comunitaria Europea n.9858/C) che vieta lo spiumaggio da animali vivi con le modalità proposte dal filmato messo in onda» da Report. Certo la tecnologia si è evoluta e molti tessuti sintetici (e tecnici) possono ampiamente sostituire quelli naturali, ma ognuno potrà pur vestirsi e mangiare come vuole!

Lasciateci aggiungere che, perlomeno, l’inchiesta di Report avrebbe dovuto essere allargata il più possibile, per capire come funziona la filiera dei gruppi della moda o dell’abbigliamento invernale. Altrimenti è lecito dubitare che nel mondo “tutto rosa” delle moda, ci sia qualche “sartina”, gelosa del rilancio che Ruffini (a dire il vero dal carattere un po’ coriaceo) ha fatto di un’azienda dimenticata.  Ma preferiamo fermarci qua. Ieri, intanto, Moncler ha dichiarato nei primi 9 mesi dell’anno utili quasi raddoppiati a 70 milioni di euro e 450 milioni di ricavi.  Ne sarà contento il fisco e chi è alla ricerca di un posto di lavoro. Vedremo se al prossimo giro di bilanci, i radical chic «de sinistra» (ma soprattutto de noantri) saranno riusciti a fare del male a un pezzo dell’industria italiana.

Wall & Street

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