I Folonari, storia di vini e banche
«Predomina in Italia il brutto vezzo di crederci inferiori in molte industrie ad altre nazioni, perché dai più si ignora quello che realmente si fa da industriali e commercianti coraggiosi e, perché troppo modesti, spesse volte ignorati».
Un articolo del Sole (progenitore dell’attuale Sole 24 Ore) nel 1910 raccontava così il coraggio dell’imprenditoria italiana nell’affrontare i mercati esteri liberandosi da quel complesso di inferiorità e da quel provincialismo che ancora oggi affligge gran parte dell’opinione pubblica. Oggetto del testo era la Folonari, storica azienda famigliare bresciana produttrice di vini, ma anche con un piede nella finanza perché tra le promotrici del Banca San Paolo (poi fusosi con il Credito agrario Bresciano in Banca Lombarda, oggi Ubi Banca). Ecco, i fratelli Folonari erano il simbolo del capitalismo storico italiano: silenziosi, operosi e solidali. Da poco uscito in libreria, il saggio di Emanuela Zanotti «I Folonari: un’antica storia di vini e banche» (Mursia, 2015, 208 pp.) racconta le loro vicende.
Trasferitisi a Brescia dalla Val Camonica, nel 1892 i fratelli Francesco e Italo fondarono l’azienda. Francesco, cattolico, si occupa delle finanze, mentre Italo, laico, è esperto di vino, lo «tratta come una cosa viva e palpitante», scrive il nipote Alberto nel libro. L’impresa prospera e, si legge nel nel libro, nel 1911 la Folonari era già un piccolo colosso: «Il commercio annuo di vino si attestava sui 400mila ettolitri, l’esportazione annua era 100mila ettolitri, l’area occupata dagli stabilimenti copriva superfici di 100 mila metri quadri, la lavorazione quotidiana di uva in vendemmia era di 15 mila quintali e gli stabilimenti avevano una capienza di 300 mila ettolitri».
Una dimensione raggiunta grazie alla crescita esterna. I Folonari aglcri inizi del Novecento acquistarono molti vigneti pugliesi (dal Nord al Sud nella Regione, in foto la consegna delle uve a Squinzano) approfittando dell’embargo francese sui vini da taglio prodotti in Puglia. «I primi vigneti furono impiantati nel 1911 da Francesco e Italo Folonari, 600-700 ettari messi a dimora da piantatori fatti arrivare appositamente dalla Sicilia perché in Puglia non c’erano. Con coraggio si gettarono nell’impresa, forti dell’entusiasmo della manodopera locale che generosamente li avrebbe aiutati a superare le non poche incognite e difficoltà. La Puglia, una delle più importanti regioni vinicole del nostro Paese, era caduta in crisi dopo l’allontanamento della Compagnia delle Indie da Brindisi e il boicottaggio operato dai mercati esteri da mediatori privi di scrupoli. Nelle annate di abbondante produzione la viticoltura soffriva: mancavano capaci cantine di conservazione per un prodotto tanto pregiato».
Alberto Folonari, il nipote e prosecutore della dinastia, lo racconta ancor meglio in un altro passaggio:
Lo zio Francesco e il nonno Italo compresero bene che, sulla scorta della loro navigata esperienza e con l’aiuto di grandi enologi, avrebbero potuto accettare la sfida di produrre grandi quantitativi di vini realizzati con i più moderni procedimenti. Le cronache dei quotidiani pugliesi riportano con toni di gratitudine l’esempio dato dai Folonari, che impiantarono a Squinzano, nei primi anni del Novecento, il vigneto pilota che diede l’avvio alla ricostruzione viticola delle Puglie dopo la distruzione fillosserica. Lo sviluppo produttivo incontrò, come sempre avviene, una serie di circostanze favorevoli: fra tutte, la Puglia poteva contare su un asse ferroviario capillare. A Lecce la ferrovia era stata inaugurata nel 1866 e si era andata progressivamente sviluppando negli anni successivi nelle province di Taranto e Brindisi. Tutti gli stabilimenti vinicoli tra Brindisi, Squinzano, San Pietro Vernotico, Trepuzzi erano sorti lungo quella strada ferrata che determinò il lancio di un’economia vincente.
Il 1911 è anche l’anno del salto di qualità perché Folonari acquisisce la I.L. Ruffino di Pontassieve (nella foto), azienda vitivinicola produttrice di Chianti. La società versava in difficoltà economiche e non aveva i mezzi per ampliare la produzione e investire nel miglioramento dei processi (il pregiatissimo vino toscano era molto richiesto anche agli inizi del secolo scorso). I Folonari acquistarono l’azienda fiorentina per 100mila lire dell’epoca (poco meno di 400mila euro odierni) ed entrarono nel grande business del Chianti.
Nel 1888 Francesco Folonari fu tra i fondatori della Banca San Paolo. Il capitale della banca venne fissato in 100mila lire. I Folonari, però, furono vicini anche all’altra banca cittadina, il Credito Agrario Bresciano, più laica rispetto alla consorella. «Con la Grande Depressione del 1929, però, la crisi finanziaria sconvolse l’economia mondiale e anche la Banca San Paolo ne fu investita. Nel panico generale, Francesco Folonari, assalito dagli azionisti che gli chiesero la restituzione del controvalore delle azioni, ebbe un comportamento integerrimo: non si fece pregare e assecondò senza indugio alcuno le richieste di amici e conoscenti. Rientrata la recessione, quegli stessi che lo avevano scongiurato di restituire loro il denaro pretesero di riavere le azioni. Francesco li assecondò lasciando tutti trasecolati poiché restituì le azioni allo stesso valore». Fu, però, l’ingegner Nino Folonari (nel ritratto) a unire la figura dell’imprenditore vitivinivolo e del banchiere. Legatissimo al ministro Ezio Vanoni e al creatore della Comit Raffaele Mattioli, Nino Folonari fu vicepresidente della Banca Commerciale Italiana dal 1954 al 1975, dopo essere entrato a far parte del cda nel giugno del 1945. Folonari appoggiò senza esitazioni l’idea di Mattioli di costituire una banca per il credito a medio-lungo termine che aiutasse le imprese ad affrontare le sfide della Ricostruzione. Nino Folonari disse sì alla creazione di Mediobanca.
Il successo di un’azienda non dipende esclusivamente dai risultati economici che essa è in grado di conseguire. Il perseguimento di utili non può prescindere dall’obiettivo di stimolare e accompagnare la crescita del territorio, favorendo un’innovazione e uno sviluppo che sappiano affermarsi in armonia con l’ambiente e con le persone, recuperando non solo il patrimonio produttivo dei territori ma anche quello civile e culturale. I protagonisti della storia qui narrata non hanno mai perso di vista un orizzonte di valori e di significati che trascendono il mero conseguimento del profitto e degli utili aziendali.
A parlare così nella prefazione è Giovanni Bazoli, presidente del Cds di Intesa Sanpaolo ma soprattutto deuteragonista di questa storia italiana. Bazoli, infatti, è figlio di Bice Folonari e, dal punto di vista finanziario, ha contribuito a scrivere questo racconto favorendo la nascita di Ubi Banca che ancor oggi vede la storica famiglia bresciana tra i propri azionisti.
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