Le nozze delle banche bloccate dalle poltrone e dal bail-in
I matrimoni bancari, sull’altare di Piazza Affari, non sono mai stati cosa facile. Basta ricordare le frizioni finanziarie tra i grandi azionisti e le gelosie di campanile che nel 2006-2007 hanno accompagnato la nascita dei due campioni nazionali Intesa Sanpaolo e Unicredit e di altrettante supercoop: Ubi e Banco Popolare. Questa volta però la baruffa tra i banchieri delle popolari per accaparrarsi le poltrone di vertice è più infuocata che mai, perché i posti di comando sono sempre meno e perché il moltiplicatore della governance duale è andato fuori moda. Basta pensare a come la Popolare Milano di Giuseppe Castagna e Piero Giarda ha frenato le mire espansionistiche della Ubi Banca di Victor Massiah (che essendo la cooperativa più solida del Paese di fatto pensa più a un’acquisizione che non a un’alleanza, sebbene sia disposta a vestire l’operazione in modo elegante e rispettoso dei territori come si usa nel credito cooperativo) o alla Bper di Alessandro Vandelli che, non avendo alcuna intenzione di diventare la spalla di qualcun altro, dopo un approccio a Bpm guarda ormai solo a compagne di viaggio più piccole di lei. Perche se Bpm e il Banco Popolare riusciranno ad accordarsi per le nozze entro marzo come promette il chiacchericcio di Piazza Affari, buona parte del merito è dato dal fatto che l’ad del gruppo veronese, Pier Francesco Saviotti è pronto a fare un indietro. E così la stanza di comando del nuovo gruppo, già pronta a tavolino, potrà accontentare entrambi i campanili e le mire delle rispettive prime linee: il milanese Castagna sarebe capo azienda, lo scaligero Carlo Fratta Pasini presidente, e Saviotti responsabile del comitato esecutivo per gestire il periodo di transizione. Il tutto in attesa del pezzo forte, che il governo trovi il modo di convincere Ubi a mettersi sulle spalle il Monte Paschi, magari sgravata di almeno parte dei suoi 26 miliardi di sofferenze da un intervento corale dell’industria del credito come quella che ha pagato il salvataggio di Banca Erutria & C con il fondo di risoluzione.
L’urgenza del governo di trovare una soluzione per il Monte Paschi si scontra tuttavia con un incubo più ampio. Creato dall’aver recepito il bail-in prima di aver sistemato problemi che giacevano da anni sul tavolo di Bankitalia e dall’aver poi fallito l’obiettivo della bad bank. Un doppio colpo che rende per chiunque, banche e advisor compresi, molto difficile calcolare quanto sia davvero affascinante, dal punto di vista del bilancio, la fidanzata che hanno alla porta. Il campanello d’allarme sono gli obbligazionisti traditi dei quattro istituti salvati dal fondo di risoluzione (Etruria, Marche, CariFe e CariChieti) che riempiono le piazze italiane e pretendono che il governo Renzi li rimborsi del maltolto utilizzando i soldi di tutti i contribuenti.
Il rischio di una crisi di fiducia tra i risparmiatori appare quindi reale, insieme al trasloco dei conti correnti verso gli istituti più solidi come patrimonio, o a controllo pubblico come il Banco Posta.Tra le popolari, quindi, quasi nessuno – tranne Bpm e Banco Popolare che potrebbero decidere di sposarsi entro marzo – rompe gli indugi. Malgrado sia passato un anno dalla riforma Renzi che le costringe a diventare spa, quasi che il principio di tutti mali fosse il voto capitario e non invece i prestiti alle parti correlate. Nelle banche italiane ci sono infatti 201 miliardi di crediti in sofferenza. Roba da togliere il sonno, soprattutto se la ripresa economica continuerà a battere in testa, mandando a terra altre piccole e medie imprese: per esempio, secondo gli analisti di Barclays, a settembre 2015, il Banco Popolare aveva 11 miliardi di sofferenze, Mps 26, Bpm 3 e Ubi 7; i primi sei gruppi 137 miliardi in tutto. In mancanza di transazioni reali, il mercato ha preso per buono il prezzo di conferimento dei crediti malati di Etruria & C (17 centesimi) e ha calcolato per l’intero sistema un impatto da 35 miliardi. Un ammanco a confronto del quale la maxi-cartolarizzazione di Stato strappata dal ministro Pier Carlo Paodan a Bruxelles può essere solo un utile attrezzo. Il quadro in realtà è ancora più complicato, perché alcune delle banche all’altare hanno adottato i modelli interni, altre sono rimaste a quello standard. E questo, dopo la mitragliata di svalutazioni in sede di Aqr lo scorso anno, impatta direttamente sul costo di «smaltimento» delle sofferenze. In particolare cambia il peso dello shortfall delle perdite attese sul Core Tier One, il parametro guida della solidità e quindi delle fusioni tra le banche. A fare due conti è Mediobanca Securities, secondo il cui studio (datato primo febbraio 2016) i non performing loans (cioè i crediti in sofferenza) ancora sotto modello standard, per il Banco Popolare potrebbero essere 1,6 miliardi, per Ubi 1,2 e 1,5 per Bipiemme.
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