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Non bastavano i «Panama Papers». A ingrossare le fila dei vip che hanno fatto i «furbetti» con il Fisco è arrivata l’inchiesta giornalistica «Paradise Papers», una lunga lista di nominativi (tra i quali la regina Elisabetta, Lewis Hamilton e Harvey Weinstein) tutti accomunati da una caratteristica: quella di essere ricchi e famosi e di aver investito in società offshore, cioè con sede in paradisi fiscali. In questo elenco sono comparsi anche contribuenti italiani, come è già successo con la famosa «lista Falciani» e, appunto, con i Panama Papers.

Edoardo Belli Contarini 01È giunto il momento di avere paura per chi ha portato parte del proprio patrimonio all’estero? Abbiamo rivolto il quesito a Edoardo Belli Contarini, socio dello Studio Legale e Tributario Fantozzi & Associati. «Nessun problema – afferma – se i contribuenti residenti in Italia hanno assolto agli obblighi di “monitoraggio fiscale” – ovvero di dichiarare al fisco gli investimenti e le attività finanziarie detenute all’estero (tramite il modello RW) e hanno adempiuto agli eventuali obblighi di indicare nella dichiarazione dei redditi la fruttuosità dei beni e delle consistenze all’estero e di versare le relative imposte».  Il discorso è diverso «se tali adempimenti sono stati omessi con riferimento agli anni di imposta ancora accertabili dall’amministrazione finanziaria italiana». In quest’ultimo caso, spiega Belli Contarini, «conviene correre ai ripari e prevenire eventuali verifiche e accertamenti tributari, che in genere recano con sé la richiesta di imposte e sanzioni – eventualmente anche penali – di notevole importo, rispetto ad una spontanea e tempestiva resipiscenza del singolo contribuente, prima cioè che scatti formalmente l’accertamento dell’Agenzia delle Entrate o la verifica della Guardia di Finanza».

Fino allo scorso settembre il contribuente residente in Italia, che si era dimenticato di assolvere agli obblighi tributari relativi ai suoi investimenti e consistenze patrimoniali all’estero, poteva aderire alla «voluntary disclosure», ovvero alla procedura di collaborazione volontaria prevista proprio per questo tipo di violazioni. «Con la nuova inchiesta dei Paradise Papers – sottolinea l’esperto tributarista – si ripropone, quindi, la necessità e l’opportunità, anche per le casse dell’erario, che venga inserita, già nella prossima legge di bilancio, una terza versione della speciale procedura di definizione con l’Agenzia delle Entrate: ciò consentirebbe al contribuente, analogamente a quanto avvenuto nel passato, di sanare la propria posizione, con una notevole attenuazione delle sanzioni amministrative tributarie e con l’inapplicabilità delle eventuali sanzioni penali». Tutto è, però, subordinato a una condizione. «Il contribuente deve aderire alla procedura speciale prima che venga “scoperto” dall’amministrazione finanziaria, all’esito della acquisizione e dell’analisi dei file e dei nominativi rinvenuti nei Paradise Papers», evidenzia Belli Contarini.

Se il legislatore non inserirà nella legge di Bilancio o nel decreto fiscale collegato la «voluntary disclosure 3.0», il contribuente si troverà esposto a subire l’ordinario accertamento tributario. A meno che egli non si attivi comunque, al di fuori di un provvedimento speciale di definizione, con gli strumenti di compliance previsti a regime dalla legislazione vigente, ad esempio con il ravvedimento operoso. «In questo caso, le riduzioni delle sanzioni, sia sul versante amministrativo, sia sotto il profilo penale, ovviamente sono differenti, nel senso che sono di impatto inferiore rispetto alla speciale procedura di collaborazione volontaria, ma di sicuro comportano dei benefici notevoli. Come sempre, è meglio “prevenire che curare”, anche sotto il profilo tributario», conclude.

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