Di Maio 01

Il decreto Dignità, che irrigidisce l’utilizzo dei contratti a termine (diminuendo da 5 a 4 le proroghe e da 36 a 24 mesi la durata massima), aumenta gli indennizzi per i licenziamenti senza giusta causa e fissa paletti ben precisi sulla quota di lavoratori non a tempo in un’azienda, ha suscitato numerose polemiche soprattutto in ambito confindustriale. Ne abbiamo parlato con Davide Possi, managing director di Piramis, il più grande partner di Vodafone Italia per la parte corporate e per la parte Vodafone Global Enterprise, che dà lavoro a 800 persone (350 dipendenti e 450 collaboratori).

PossiLe norme sui rapporti di lavoro contenute nel decreto Dignità riguardano anche gli enti no profit nella loro qualità di datori di lavoro. Che idea si è fatto delle nuove misure?

«Le misure introdotte hanno chiarito alcuni aspetti fiscali poco chiari e hanno uniformato altri aspetti, come ad esempio gli investimenti, allineando gli enti no profit alle imprese tradizionali. Forse, visto i diversi obiettivi contenuti negli statuti di questi due tipi di società, sarebbe stato meglio mantenere delle differenze. Bene la proroga fino al prossimo gennaio 2019 per la revisione degli statuti e bene anche la norma riguardante i dipendenti “molto svantaggiati”».

Obbligo di indicare le causali per i contratti a tempo determinato al primo rinnovo, aumento dei costi a carico dei datori di lavoro, limitazione delle possibilità di ricorrere ai contratti a termine: cosa la spaventa di più da imprenditore?

«Ricordiamoci che anche grazie alla flessibilità molte aziende hanno avuto successo. Operiamo in un contesto, in continuo movimento, dove i datori di lavoro devono avere una visione di dove l’ente sarà nel prossimo futuro, devono essere capaci di individuare i bisogni aziendali in termini di organico e soprattutto soddisfarli. Quindi mi spaventa molto l’irrigidimento dei contratti a termine. Con questa norma si torna indietro nel tempo in modo irreversibile, aumenterà le difficoltà nel pianificare i lavori e di conseguenza il precariato visto che saremo costretti ad aumentare il ricambio di personale a tempo determinato».

Quindi si può affermare che le finalità sono condivisibili, ma le scelte adottate un po’ meno?

«Dipende! Essere imprenditori vuol dire vedere il lavoro in una prospettiva sociale. I mercati sono cambiati e le aziende non hanno più davanti commesse per periodi lunghi ma sono sottoposte di continuo a rimodulare le loro capacità produttive. Le aziende hanno assoluto bisogno di flessibilità per fare fronte alle variabili del mercato e questa norma non aumenterà di certo i contratti a tempo indeterminato».

Secondo non pochi osservatori ed esperti, le nuove norme finiranno per aumentare il precariato anziché ridurlo, oppure ad aumentare il lavoro sommerso. È d’accordo?

«Pienamente. Sicuramente gli enti che hanno bisogno di flessibilità passeranno dai contratti a termine ad altre forme di vero precariato come le partite Iva, le collaborazioni, eccetera»

Quali cambiamenti suggerisce?

«La mia risposta – non da tecnico – è che l’abolizione totale sarebbe la soluzione migliore ma sicuramente irrealizzabile. Spero almeno nell’abolizione delle causali. Le causali per come stanno scritte oggi sono praticamente inaccessibili per qualsiasi azienda o ente. Si potrebbe sopportare la diminuzione da 36 a 24 mesi della durata ma queste causali costringono a chiudere i contratti dopo i primi 12 mesi».

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