Ve possino!
Nel nostro Paese non esiste nesso proficuo fra attitudini/capacità e ruolo occupato. A tutti i livelli. L’altra sera, fra le reti generaliste del servizio pubblico e La7, tre note reporter asseveravano con gravissima serietà questioni di grande rilevanza per l’agenda politica ed economica semplicemente non parlando italiano; bensì romanesco. Tanto da rendere difficile, oltreché irritante, l’interpretazione di molti passaggi. “Saranno state avvenenti!”, eccepirete voi. Ebbene, non propriamente delle declinazioni capitoline di Mélissa Theuriau. Ora, le precipue prerogative delle corrispondenti televisive dovrebbero essere proprio la dizione, l’efficacia comunicativa e la gradevolezza. Non sono elzeviriste, opinioniste, ma giornaliste di servizio. Quindi avrebbero il compito, nel migliore dei mondi possibile, di rendere il migliore dei servizi possibile, anche per i remoti abitanti della Gallia Cisalpina. Nel primo passaggio su queste pagine parlavo dello sfarinarsi degli usi regionali in tutta la loro ricchezza; embè, li liquidiamo quando dovremmo tutelarli e dove invece servirebbe unità nella differenza, ecco l’inflessione dialettale della cronista che si impone alla Nazione con l’arroganza della consorteria di cortile. Una valutazione, la mia, catalogabile come pericolosamente sessista sotto questi chiari di luna – dove sono piuttosto le giornaliste piacenti all’occhio e all’orecchio a doversi scagionare – non fosse che si attaglia in egual maniera agli uomini. Quando in televisione intercetto Marco Damilano, cognome che appare come geniale presa per il culo della verosimiglianza, cambio canale. E non tanto per il suo incedere critico, molto spesso acuto e onesto, quanto per una parlata da brividi, stracca e ciancicata come i colletti delle sue camicie. Ma Damilano è un commentatore, non un mezzobusto, e quantomeno si smarca dall’accusa di impresentabilità con gli argomenti sostanziali tipici dell’intellettuale italiano da Gruppo l’Espresso, che non si annoda la cravatta e si pettina poco per le troppe inquietudini. Tuttavia, in canali dove può circolare David Parenzo – che da buona zanzara fa il repentino effetto di un insetto nella minestra – iddio ci preservi Damilano.
A questo punto dell’obiezione, chi ben pensa in genere cala dall’alto il tonante neologismo che zittisce: Meritocrazia. Concetto vanaglorioso quanto impalpabile, che è ormai un MacGuffin retorico nel dibattito pubblico, poiché muove l’argomentare senza che nessuno sappia esattamente di che si tratti.
La “meritocrazia”, che è sempre piaciuta alle anime belle benché sia nata ironicamente da radici distopiche, ha nella sua accezione più alta una connotazione morale che pretenderebbe di legiferare sulla probità; ma quale giudice può sentenziare su questioni morali? Fatichiamo a giudicare noi stessi, in tale ambito, facciamo sfacciatamente spallucce di fronte alle massime dell’imperativo categorico e vorremmo pesare le coscienze degli altri? In un mondo kantianamente compiuto, è possibile, provvido tracciare una moralità universalmente valevole. In questo si rischia la terrificante caricatura. Nella prassi sociale, la meritocrazia è un palliativo per l’incapacità di individuare la competenza. Anche negli ambiti in cui il criterio di competenza è universalmente adottato, come per i medici o per i piloti di quadrigetto. Non sappiamo se è veramente competente, ma è senz’altro meritevole. Argomento che rassicura poco quando si è a cuore aperto o a 10mila metri sopra il livello del mare. Ma se per giudicare la competenza serve competenza – e si rischia di cadere nel toboga logico del Quis custodiet ipsos custodes? – vi è un margine più remissivo di oggettività, purtuttavia buon punto di partenza per affrontare la vulnerabilità di selezione in cui versiamo; una parola più modesta e accessibile eppur fruttifera: Adeguatezza.
Adeguatezza al ruolo che si occupa, alla rappresentazione di cui si è protagonisti. Usain Bolt (Oscar dello sport anche quest’anno) non ha nessun merito di natura morale per le gambe fotoniche che porta a spasso, ma troviamo adeguato corra 100 e 200 metri alle Olimpiadi. Perché non prendiamo il primo ciula che ansima a Parco Sempione e lo mandiamo ai Giochi? Perché no?!… Si impegna così tanto! Non sarebbe forse moralmente più degno dello spirito olimpico? Nello sport per fortuna ci sono il cronometro, il canestro, la porta… che inchiodano all’evidenza dell’attitudine. Ma dove invece l’arbitrio si insinua con i suoi sonagli, il moralismo critico fredda ogni adeguatezza. Questa ideologica e patologica assenza di un nesso fra ruolo e vocazione, questa insofferenza a ogni gerarchia razionalmente istituita, è una ragnatela sociale vischiosissima, che ci imprigiona alla cafoneria del commesso, alle nevrosi del taxista (o dell’autista di Uber), all’ignoranza dell’insegnante, come alla faziosità del giudice; che ha permesso agli stilisti di credersi profeti dello stile e così di ridicolizzarlo fino all’aberrante. Ma non dà scandalo perché l’importante è partecipare, perché tutto è relativo. In una realtà «che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie».
Su queste basi appare dunque velleitario riflettere sull’impaccio più sciagurato della nostra storia recente, ovvero l’incapacità di selezionare una classe dirigente funzionante. In questo nostro tristo consorzio vige la cachistocrazia, ovvero il governo dei peggiori, che nasce dal basso e verso il basso livella; sgorga dall’indistinto e definisce. Realizza l’esatto opposto dell’aspirazione divina di Hölderlin in cui il grande innalza a sé il piccolo, ovvero una prassi diabolica dove il meschino, con la forza del numero, trascina a sé il valente, e quando è in posizione di potere, per dimenticare la propria meschinità, si circonda di gente ancor più meschina di sé. Attraverso i morsi fetidi e infami del pensiero corretto autorizzato, che spaccia la licenza per libertà e il capriccio per legittimità, infetta i flussi dell’informazione filistea, si propaga alla collettività lubrificando le meccaniche relazionali più deteriori, nel pubblico come nel privato, e quindi contamina la democrazia rappresentativa, che in ogni sua incarnazione premia il mediocre per paura del talento, il servo per disprezzo della sovranità; che è tollerante verso l’inadeguato per terrore della capacità. «Il suo amore per la gente così com’è nasce dall’odio per l’uomo come dovrebbe essere». Tutto ciò precisato, non mi sorprenderei se un giorno ci ritrovassimo un ministro della Sanità senza neppure esperienza di tirocinio in medicina interna o un ministro dell’Istruzione ancora alla ricerca del diploma di maturità.