Gen Z, la generazione dimenticata
Rick. Tolomeo. Gaja. Matilde. Giulia. Cinque ragazzi per una generazione, la Zeta. L’ultima, quella dei liceali e dei laureandi. Ultima, per età. Ma ultima anche perché fin dall’inizio di questa eterna emergenza Covid, è sempre stata all’ultimo posto.
Prima gli anziani, poi i bambini, poi gli adulti, poi i ristoranti, poi i parrucchieri, poi, poi… ma il loro turno non è mai arrivato. Nella prima, seconda e nemmeno nella terza ondata. A loro si chiede, ancora una volta, sempre e solo di stare zitti e buoni. Di non andare a scuola e di non vedere gli amici. Di non protestare. Di incassare senza fiatare. Di vivere h24 con la mamma nell’età in cui lei è tutto quello da cui si vuole fuggire. E loro lo hanno persino fatto. E continuano a farlo. Reclusi e dimenticati, cercano «dentro» quello che non possono trovare «fuori», sbirciano indietro, magari tra le foto nel telefono per guardare avanti, per sognare, immaginare, tenere stretto un futuro ancora troppo lontano. Ma in che modo? E cosa pensano?
Nasce così «Gen Z: The dismissed generation» una web serie che fa parlare i ventenni milanesi. Cinque storie di lockdown vissuto, sofferto, raccontato in appena 15 minuti, 3 a testa per ognuno, magistralmente pensati e girati e prodotti da tre ragazzi che se non sono appena usciti dalla generazione Z, sono dentro a quella che sta subito dopo, i Millennial.
Tommaso Frangini (27 anni) e Francesco Bianco (24) si sono divisi la regia degli episodi insieme a Marcello Di Gregorio (22 anni), regista e produttore con la sua Vanilla Shake Productions (il video si può vedere sul canale Instagram della casa di produzione @vanillashakevideos ma anche su Youtube sui il trailer). A coinvolgere i tre talentuosi registi (tutti con studi di regia in America), due mamme, anche se di nessuno dei ragazzi coinvolti: Giovanna Testa, medico, e Roberta Colombo Gualandri, imprenditrice sociale che vive tra Milano e Londra. Entrambe spinte dall’urgenza di tutti noi genitori di adolescenti, anche (pre o post) di fare qualcosa. Qualcosa che basti a non essere la prigione del nulla. Il risultato è molto più di qualcosa.
«Sono rimasto stupito anche io stesso – racconta Tommaso – perché mi sembra una generazione molto diversa dalla mia, eppure hanno solo 5, 6 anni meno di noi. C’è un’attenzione diversa al mondo che li circonda e forse per questo anche una maturità sociale maggiore». Ora l’idea è di allargare lo sguardo ai ragazzi che vivono nelle altre capitali europee e poi chissà forse a New York. Perché giudicarli è molto semplice. Comprenderli è un’altra cosa.
Qui di seguito le loro 5 storie e i loro video che potete vedere. Ne vale la pena, e scoprire che c’è sempre un messaggio positivo
Tolomeo
Tolomeo ha i capelli ricci, lo sguardo trasparente, la scrittura che esce «come le lacrime per chi ha voglia di piangere» e la passione per le foto in bianco e nero, perché senza la distrazione dei colori si arriva meglio dentro, giù in fondo alle cose, alle persone. Durante il primo lockdown Tolomeo si è rinchiuso nella sua stanza, o come la chiama lui «la sua tana». Un «momento magico», da lì è partito. Il racconto di Tolomeo è il viaggio dentro se stesso che passa attraverso quaderni, e pagine e pagine scritte fitte fitte per essere più forte della paura, «l’ossessione» di dimenticare. «Non posso permettermi di scordare, come se dimenticandomi anche un solo frammento, perdessi un pezzo di me». Tolomeo si chiude per 60 giorni in casa e pensa «che figata, posso passare il giorno e la notte a leggere scrivere e guardarmi i film». Assapora la malinconia, ci si immerge e i giorni uguali ai giorni diventano «una cosa pazzesca».
«Erano i giorni più monotoni della mia vita ed è stata una rivelazione. A me veniva da scrivere, bam…». «Bam» ripete più volte per dare un suono facile a quell’implosione dentro di sé. Dentro una stanza «ma viaggiando dentro di me, così ho esplorato un mondo».
GIULIA
Giulia ha 19 anni, è milanese (doc) ma «per metà». Fino al lockdown, la sua vita è stata divisa tra la città (dove vive) e la montagna perché scia a livello agonistico. Due vite parallele tra neve e studio, monti e metropoli. A ottobre dello scorso anno inizia l’università e, insieme, il corso per diventare maestra di sci. «Ho fatto fatica ad adattarmi tra quei due mondi così tanto diversi e ci ho messo un po’ di tempo». Non era neanche troppo sicura di riuscire a stare dentro quelle due vite parallele. Invece. A gennaio trova l’equilibrio perfetto. «Perfetto per rompersi con l’arrivo del Covid».
Mentre lo dice le scappa un sorriso che s’abbuia rapidamente. «Quello che mi ha motivata durante tutto quel periodo di lockdown, era non perdere… non rendere vani tutti i sacrifici che avevo fatto». La pandemia per lei ha voluto dire rinunciare a mezza vita. Ed è stato proprio lì che ha scoperto di volerla con tutte le sue forze quella doppia vita. «Questo stop mi ha dato la possibilità di capire che io ricerco quel tipo di vita. La vita dinamica fa parte di me, la voglio e forse fino ad allora non l’avevo capito». Il suo messaggio ai ragazzi come lei? «Non subire la vita. Prendere i momenti difficili come un punto su cui ricominciare. Bisogna cercare di non mollare. E affrontare quello che stiamo vivendo con speranza».
RICK
A Rick il lockdown stravolge un po’ tutto. 20 anni, nato a Toronto in Canada fa un po’ lo studente a Milano un po’ l’artista di strada, «ogni passante una sfida». Il Covid lo chiude in casa. Lui e la sua chitarra. La sua chitarra e lui che s’affaccia al balcone e vede la fila di persone in attesa di entrare al supermercato, proprio lì sotto. L’artista si reinventa la strada. Rick è uno di quelli che hanno suonato e cantato dalle finestre. «Mi piaceva l’idea di allietare quelle attese. I live sul balcone mi davano un attimo di illusione di normalità». Anche se in quel periodo così come ancora oggi purtroppo, non c’è niente di normale. Un momento storico. E per lui «lo strano è accorgersi di come la storia ti accade e molto di quello che c’è del tuo quotidiano rimane. Ti trovi in mezzo ed è come se fossi deluso di vedere quanto è normale». Quanto è «banalmente reale» la storia. Però «la cosa bella è vedere come ciascuno può fare qualcosa. Anche solo per se stesso, perchè a volte custodire se stessi è fare il proprio dovere di cittadino». Per Rick la strada è ancora lontana ma «in un modo o nell’altro» lui vuole «continuare a creare» il suo sogno, adesso sapendo anche che «il mondo intorno può cambiare in modo imprevedibile».
GAJA
Prima del lockdown Gaja, 20 anni, a Milano fa l’attrice, recita. Il teatro è la sua vita, «mi ha sempre aiutato per aprirmi all’altro in quanto meticcia, in quanto donna è stato fondamentale per mostrare la mia identità e giocarci». Nel lockdown di colpo tutto si ferma, si trova a vivere da sola. Gaja scopre la solitudine, il senso del vuoto. Niente palcoscenico, niente amici. Niente famiglia. Ed è «una botta». Poi a poco a poco dentro quella solitudine, Gaja ci si accomoda, la sente, la guarda e trova delle nuove emozioni insieme allo stupore di non averle mai incontrate prima in quella vita frenetica milanese. Inizialmente non sa cosa fare, non ha iniziato a leggere tantissimo e neppure ha imparato a suonare la chitarra «perché troppo spaventata per fare cose». Poi s’inventa uno spettacolo teatrale si intitola «Mentre marciamo marciamo», tutto in scena via Zoom e dentro ci mette tutto quel vuoto che non è più solo una botta e non fa solo male. «Se sono cambiata durante la quarantena? Semplicemente adesso apprezzo di più la solitudine, mi sono posta l’obiettivo di stare nella realtà con le sue contraddizioni. Mi sento triste, sola, arrabbiata… però quando sto in quella emozione posso comunicarlo» e magari scoprire che c’è qualcuno che sente la stessa cosa.
MATILDE
Che poi ci sono lockdown e lockdown. Matilde li ha visti tutti e due. Ha 18 anni, frequenta il liceo artistico ma non ha mai smesso di fare la volontaria in un centro per ragazzi in un quartiere disagiato della periferia milanese. «Sto bene quando posso dare una mano agli altri. E così ha fatto e seppure abituata a saltare gli ostacoli (fa equitazione) ha assistito alle difficoltà di quei ragazzi «che non hanno possibilità di avere un supporto per esser collegati 24 ore su 24». Sappiamo che la dad non per tutti è stata ed è uguale e ci sono stati studenti che hanno dovuto seguire le lezioni con un solo cellulare da condividere con tutta la famiglia, fratelli e genitori. Il difficile è stato anche capire «come i volontari possono agire». Per Matilde «tornare a scuola dopo il lockdown è stato forse più strano di fare le lezioni on line», perché sì è vero che «siamo vicini, tutti nella stessa stanza ma abbiamo il plexiglass… e anche il rapporto con i ragazzi delle altre classi non c’è più». Ma questo non la scoraggia. «Il futuro? mi viene da dirmi che non sarà il covid a fermarmi. Non è il momento per rinunciare certo seguendo tutte le regole e le misure richieste, «non deve essere un momento che ci riempie di paura, ma di speranza».