Sergio Ramelli è stato la vittima innocente di un folle odio politico. E per questo merita di essere ricordato. Un’ovvieta? Purtroppo non è così. È appena passato il giorno del quarantesimo anniversario dalla sua morte ed e triste verificare che nel 2105 in questo Paese, nella sua “capitale morale”, anche i concetti più evidenti devono essere ripetuti, riaffermati, ogni volta, contro una stupidità dilagante.

Sergio Ramelli era un ragazzo di destra con i capelli lunghi. Un ragazzo. Aveva 18 anni quando un commando di militanti della sinistra extraparlamentare gli tese un agguato a colpi di chiave inglese. Ramelli morì dopo 40 giorni di agonia. Quella vicenda atroce si è consumata in una Milano violenta, cupa, disperata. E diversa, certo, si dirà. Eppure, 40 anni dopo, capita ancora di leggere i commenti deliranti di chi minimizza, giustifica, di chi parla dei “fascisti”, capita che qualcuno manifesti ancora “contro”. Commenti agghiaccianti che ripercorrono la follia dell’antifascismo militante.

E invece il ricordo di Ramelli dovrebbe essere condiviso oggi. Ha ragione  l’ex ministro Ignazio La Russa quando sostiene che deve essere offerto a tutti. Il sindaco di Milano, va detto, ha fatto la sua parte, portando una corona di fiori, anche se era senza fascia tricolore. Se diventa patrimonio condiviso la destra nostalgica può liberarlo dallo spirito di fazione. E viceversa. Ricordare perché? Perché ricordare Ramelli vuol dire rifiutare la violenza. E condannare l’assassinio di un giovane innocente, senza “se”, “ma” o “anche se”.

AlGia

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