Ci è arrivata un’altra risposta. Carla ha letto la storia di Anna Lisa, la giovane di Montecatini morta a 33 anni per un tumore al seno “triplo negativo” che è il cancro più aggressivo, quello che non risponde né alla cura anti-ormonale né agli anticorpi monoclonali. E che pure chemio-terapia e radioterapia scalfiscono appena.

Anna Lisa ha fatto cure devastanti – esattamente come quella ragazza che ho conosciuto a un matrimonio e che mi è entrata nel cuore (a cui ho dedicato il post l’angelo). Carla ha provato rabbia, ha cercato spiegazioni, “forse si è curata solo con terapie convenzionali” si è domandata. Ha spedito un paio di link sul blog che hanno attratto la mia curiosità. Eccoli. Il primo e il secondo. Si parla di sperimentazioni, in un caso si colpiscono col laser i noduli tumorali metastatici, nell’altro si applica la terapia fotodinamica per frenare la corsa delle cellule maligne.

Ho girato i link al professor Fabio Corsi, direttore dell’Unità di senologia dell’ospedale Sacco di Milano che ci ha risposto con queste parole:

“Il problema è sicuramente delicato e complesso. I cosiddetti tripli negativi sono tumori che non rispondono alla terapia ormonale (si chiama terapia ormonale quella che riduce la normale produzione di ormoni ndr) e neanche alle terapie biologiche con anticorpi monoclonali (ossia quando l’analisi istologica evidenzia la positività al recettore Her2, ndr). Solitamente colpiscono donne di età inferiore alla media, hanno caratteristiche di particolare aggressività, in genere rispondono meno anche alla chemioterapia. Altro dato: spesso si correlano a pazienti cosiddette “mutate” cioè con una  mutazione genetica, il che significa una predisposizione  familiare. 

Tutto ciò considerato, ogni tumore fa storia a sè e, come ripeto sempre alle mie pazienti, i confronti con altre donne colpite da neoplasia mammaria sono  solo destabilizzanti, fuorvianti e inutili. Le terapie qui citate (quelle dei link) sono ipotesi terapeutiche sulla malattia metastatica assolutamente in fase di messa a punto, senza nessuna validazione nella pratica clinica. Per fare un esempio: anche io sto per iniziare un protocollo terapeutico sperimentale in donne con malattia in fase avanzata che non rispondono alle cure tradizionali con un farmaco biologico nanoingenierizzato, ma ben mi guardo a proporlo come ipotesi terapeutica consolidata.

Sembrerà retorico o paternalistico, ma credo che le donne debbano avere fiducia dell’equipe che le segue (chiaramente avendo verificato serietà esperienza e aggiornamento della stessa), quando tentano di fare il mestiere del clinico non avendo gli strumenti critici culturali e di esperienza alla fine si crea un’illusione o aspettativa su cose che magari mal si combinano con la loro situazione di malattia”

Il professore ci ricorda che i pazienti devono af-fidarsi al proprio medico e seguire le cure che vengono loro proposte per quella malattia, in quel preciso momento storico in cui si scoprono malati. C’è da riconoscere però che spesso, specie quando si supera il momento più brutto e si entra nella categoria dei “sopravvissuti a termine” (ma poi, chi non lo è a termine?), scatta qualcosa (e nei caregiver come Carla o in molti parenti di malati scatta subito): il bisogno di sapere, di partecipare, di guardare la malattia dall’alto della spalla, quella del gigante-medico, per comprendere il cammino di guarigione, per quanto ci è dato farlo.

Ci sono sì tentazioni da evitare, come ricorda Corsi, il coltivare false illusioni, l’affannarsi a cercare risposte (che neppure i medici sanno darti), lo spaccarsi la testa con i “se” e i “ma”. Forse la strada migliore è quella che assomiglia a una danza: un po’ cercare (di capire) e un po’ seguire il fiume (accettare).

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