Ecco una storia vera e a lieto fine. Una storia-carezza che varrebbe la pena raccontare a tutte le persone che hanno una diagnosi di cancro. Il calciatore Eric Abidal, fuoriclasse del Barcellona e ora del Monaco, scopre a 32 anni di avere un tumore al fegato. Subisce un primo intervento e, in seguito, un trapianto d’organo. Ma non resta in panchina, quando torna in campo, ha più grinta di prima.

A parlarci di lui è Gianfelice Facchetti, attore e regista, figlio di Giacinto, il famoso terzino della grande Inter, morto di cancro nel 2006, a 64 anni.

Gianfelice ha intervistato Abidal per la Gazzetta dello sport, in vista della premiazione del 4 novembre scorso, il calciatore francese ha meritato il Premio Facchetti, “Il bello del calcio”.

Ecco l’intervista, qui e sulla Gazzetta.

Per gli amanti del calcio Eric Abidal fino a marzo 2011 era “solo” un calciatore di una della squadre più forti del pianeta, il Barcellona di Guardiola. La notizia della sua malattia lo fece conoscere a tutto il mondo extrasportivo per il coraggio e la forza d’animo con cui la affrontò.

Quale fu la sua reazione quando le diagnosticarono il tumore al fegato?
“È stata la difficoltà più grande incontrata nella mia vita; perciò ho desiderato subito battermi e farmi operare in fretta. Avevo voglia di conservare il mio corpo sano com’era sempre stato e, sapendo di avere una parte malsana in me, era urgente riappropriarmene”.

Ha mai avuto paura di non farcela?

“Non mi sono mai posto questa domanda. Dico solo che in battaglia non mi sono mai visto come il perdente”.

Il pericolo è scampato?
“Oggi sono molto contento di avere una buona salute ma so anche di non essere del tutto al riparo da un’eventuale ricaduta o da un’altra malattia che potrebbe essere diversa da quella che ho conosciuto”.

Sente di essere cambiato dopo un’esperienza così?
“Ora mi godo tutti gli istanti che trascorro in famiglia o tra amici, cosa che prima facevo poco”.

E sul campo?
“Il lavoro è ancora assiduo, sempre molto professionale, lo affronto però con uno spirito diverso, specie per ciò che riguarda la determinazione e uno stato d’animo che mi spinge a divertirmi, traendo piacere ogni volta che mi alleno o gioco una partita”.

Come può lo sport aiutare a promuovere una cultura della salute?
“Durante i momenti più duri i dottori dissero chiaro che nel quotidiano lo sport sarebbe stato buono non solo per l’allenamento ma soprattutto per rimettermi in buono stato. Nello sport si imparano molte cose cruciali: la condivisione, il coraggio, la forza di volontà, è scuola di vita. Ogni persona poi ha i suoi obiettivi e con i suoi tempi può riuscire a fare grandi cose.

Il mondo del calcio ha aspettato il suo rientro.
“Intorno a me tutti hanno avuto un comportamento esemplare. Ho ricevuto molto sostegno da quell’ambiente: il calcio è una famiglia e l’ho vissuta davvero così. Quando ci si sente amati e incoraggiati si hanno più forze per combattere”.

Qual è stato il gesto più bello di un compagno?
“Il mio amico Dani Alves si offrì di donarmi il fegato per il trapianto! Ma non fu possibile, avrebbe compromesso la sua carriera: resterà per sempre un gesto di grande generosità”.

E le persone intorno a lei?

“Due tra i miei migliori amici fecero altrettanto: Yassin, anche lui un donatore potenziale, e mio cugino Gérard che alla fine fu scelto per l’operazione”.

All’inizio i medici furono scettici sul suo ritorno in campo: quando ha pensato che la sua carriera non fosse ancora finita?
“Non l’ho mai capito davvero, è stato grazie ai colloqui avuti col medico della squadra e con quelli dell’ospedale se ho affrontato il male con pazienza, senza saltare le tappe”.

Che cosa significava?
“Potersi curare bene innanzi tutto, poi fare una vita normale e ricominciare l’attività sportiva. Quando il mio stato fisico si è trovato di nuovo al 60-70%, ho potuto fissarmi l’obiettivo, tornare a giocare a calcio”.

Che cosa le ha dato maggior forza per ripartire?
“I miei bambini, gli amici e l’aiuto ricevuto a Barcellona da club e tifosi. Poi sono state tante le persone che mi hanno seguito in questo periodo difficile. Gli obiettivi che volevo raggiungere non erano solo per me ma pure per tutti quelli che tifavano per me”.

Crede in Dio?
“Ci ho sempre creduto, fa parte della mia educazione. Per me e la mia famiglia questo è importante”.

È cambiato qualcosa nella sua fede?

“Per ciò che ho vissuto dalla mia nascita fino ad oggi, sento che Dio ha scritto questo destino per me, mettendo sul mio cammino anche cose difficili da accettare. Da che sono guarito, sono solo fiero di tutto ciò che ho fatto e lo ringrazio per ogni giorno che mi ha donato”.

Avrebbe desiderato chiudere la carriera col Barça?
“Non ho rimpianti, nella vita si va avanti e non si può avere tutto ciò che si vuole. Ho passato 6 anni in quella squadra, mantengo vivi tutti i bei ricordi che ho condiviso con compagni, allenatore, staff e dirigenza. Tutto questo resterà”.

Nell’estate scorsa il Monaco, su consiglio di Ranieri, le offrì l’opportunità di tornare in campo. Cosa ha significato per lei?
“Non posso che essere riconoscente al Monaco e al nostro mister. Insieme mi hanno riservato la cosa più bella che potessi vivere, permettermi di continuare a giocare. Ora che sono di nuovo dove volevo, so che tocca a me migliorare sempre”.

Il 4 novembre ha ricevuto il Premio Facchetti – Il bello del calcio, riconoscimento alla sua testimonianza coraggiosa. Cos’è che fa bello il calcio secondo lei?
“Il calcio è bello quando è sia un’avventura personale che collettiva. L’obiettivo è sempre quello di vincere, ovvio, e di dare un buon esempio sul campo, avendo molto rispetto per avversario, arbitro e tifosi”.

Per molti atleti che come lei hanno conosciuto malattie dure, la sua storia rappresenta una speranza. Che messaggio gli manda?
“Direi loro di non mollare mai, credendo sempre nella guarigione anche quando le probabilità sono poche. Bisogna approfittare di ogni singolo istante con le persone più care perché questi momenti delicati da vivere, sono quelli in cui uno si sente più amato, vanno goduti. Grazie a questo, è possibile trovare l’ottimismo per uscirne insieme anche a un pizzico di fortuna.

A luglio si è ripreso la Nazionale: è ottimista per lo spareggio con l’Ucraina?
“Per me è già un orgoglio fare parte della squadra del mio Paese, lo sognavo da quando ero ragazzo e ci sono riuscito. Daremo tutto per qualificarci”.

Piani per il futuro?
“Per ora mi basta sapere di continuare col mio club, poter fare buone prestazioni e raggiungere il Mondiale 2014. Se non sarà così per me, spero che lo sia almeno per la squadra”.

Cosa serve oggi ad Abidal per sentirsi felice?
“Non granché, perché prima di tutto sono felice con quello che ho già, mia moglie, i figli, i miei genitori che sono ancora in vita, mio fratello e mia sorella… Tutti gli angeli che amo. Quindi, se dovessi ripetere la mia vita per averla più felice, domanderei senza dubbio di potere rivivere la stessa vita!”.

Gianfelice Facchetti

Ps. Gianfelice Facchetti presenta lo spettacolo “Se Betlemme avesse lu mare” interpretato dalla compagnia della Casa circondariale di Monza il 9 dicembre al teatro Elfo Puccini di Milano, ore 21. L’incasso della serata verrà devoluto al comitato 16 novembre per i malati di Sla

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