Professore in ospedale
Insegna l’inglese cantando Yellow Submarine. Il ritmo lo dà con il piede oltre che con l’immancabile ukulele ricevuto in dono. Ma questa, dell’ukelele, è una storia che arriva dopo.
Scende dalla bicicletta, ha lo zainetto in spalla. Ospedale Buzzi, Policlinico, Gaetano Pini, si ferma qui dove ci sono i reparti dei ragazzi malati. Così, Elio Meloni, milanese, 44 anni di insegnamento, lega la bicicletta e va in corsia a cercarsi la sua classe. In quei reparti lo chiamano tutti “prof”.
Se decidi di fare il professore in ospedale, come Elio a tre anni dalla pensione, sai che gli alunni te li devi cercare da solo e che non c’è mai un gruppo di studenti che ti aspetta. “Poi, in realtà, capisci che sei atteso e che la classe ce l’hai eccome: è composta dal caposala, dalla signora che porta i pasti ma ritarda un poco se coglie ‘concentrazione nell’aria’, dal primario che trasforma lo spazio più luminoso in biblioteca e sala pranzo (accaduto al Pini); insomma, il fatto che i miei alunni siano sparpagliati, che abbiano età diverse e che sostino in ospedale un tempo limitato e il fatto che non ci siano miei colleghi ma adulti con altri ruoli, non intacca l’unità di intenti”.
Qual è l’intento comune?
“Portare un po’ di normalità in mezzo a vite in subbuglio. Quando sei ricoverato per una malattia grave o ti ritrovi in un letto con le gambe rotte per un incidente o attendi una diagnosi che non arriva per mesi, sei portato a pensare che vada tutto storto. L’ambiente può essere disorientante, c’è chi lo definisce un ‘tempo sospeso’…”
I ragazzi non fanno esami dopo un ricovero. L’insegnamento in ospedale è previsto per legge (il sito di riferimento è www.hshlombardia.it), gli insegnanti distaccati comunicano con le scuole, rilasciano un attestato e, in casi di degenze lunghe, evitano che gli studenti perdano l’anno.
In reparto si canta, “per imparare le lingue straniere”, si disegnano i frattali “per ripassare geometria e molto altro…”, si usa il metodo analogico di Camillo Bortolato, si declamano le poesie.
“Al Pini incrociavo un ragazzo di 21 anni, soffriva di una forma di artrite giovanile, veniva ogni mese e mezzo per un day hospital. Dopo la terapia, in genere, ordinava un menù di specialità cinesi e pranzava in sala biblioteca. Non era un mio allievo, era già all’università, ma chiacchieravamo volentieri, sapevo che giocava a calcio. La malattia non lo condizionava. Così quando capitò una ragazzina di 14 anni con la stessa forma reumatica – stava per iniziare le terapie ed era assai spaventata – mi sembrò naturale domandare a lui: “Come va?”. Risposta: “Bene! Gioco a calcio”. La ragazza fu subito sollevata e cominciarono a conoscersi. Ho dato loro il la, o almeno così mi parve, forse sarebbero diventati amici lo stesso…”
Sprona gli allievi a scrivere a mano.
“Sì, visto che si è persa negli anni la capacità di scrivere, forse per colpa della scuola, forse per l’uso delle tecnologie, invito a recuperarla. Quadernetto e penna, si può cominciare segnando le esperienze importanti della nostra vita. È un modo per riuscire a guardarle e comprenderle meglio. Poi, per chi mi segue, vado avanti…(spaziando fra buddismo, gli esercizi di Thich Nhat Hanh, il valore del tempo)”.
Dà anche qualche dritta per imparare a concentrarsi.
“Prendo spunto da Daniel Goleman, neuropsicologo, l’inventore dell’intelligenza emotiva. Se il multitasking, ossia l’occuparsi di mille cose insieme, è distraente, la mente felice e produttiva è quella che si dedica a un impegno solo, tagliando tutto il resto…”
E l’ukulele?
“Un regalo di un’altra giovane paziente che condivideva con me la passione per la musica. Prima di andarsene organizzò un mini concerto per salutarmi, cantarono anche la sua mamma e la compagna di stanza…”
Insomma, riconoscenza tanta.
“Tanta. Ma non lo faccio per questo (mostra poesie e disegni dedicati, racconta di corrispondenze avviate e di calorosi abbracci). Dopo un po’ i rapporti si concludono, le mail si interrompono. È normale che sia così. Si lascia andare un periodo di sofferenza per vivere il presente”.
Come ci si può preparare per stare a contatto con chi soffre?
“Non c’è una regola. Io mi alzo almeno mezz’ora prima per meditare. Per me è necessario. Ricevo forza e la trasmetto ma non è mia quell’energia che ricevo, da solo non ce la farei. La sofferenza ti spacca in due, specie quella dei giovani, è insopportabile. Ho due figli, ho avuto centinaia di alunni, ho scelto di venire qui gli ultimi tre anni (e ora che è in pensione vorrebbe continuare come volontario, ndr) per offrire qualcosa, oltre alla mia esperienza. Se cedessi che aiuto sarei?”.
Elio Meloni ha pubblicato due piccoli libri Cortesia, pratiche di gentilezza quotidiana e Fiducia, edizioni Claudiana.