Da Lisa a L.I.S.A, la Sanità che vorremmo
Una storia di presunta malasanità di quelle che non si vorrebbero mai sentire. Muore una ragazza di 17 anni per un “trapianto sbagliato”. I genitori la raccontano, pare che gli errori medici siano più di uno. Sono in corso processi, uno penale e uno civile. A cosa serve il racconto? E a cosa serve la disperazione, dignitosa e profonda, di questi genitori?
Maurizio Federico, responsabile del centro nazionale per la Salute globale all’ISS, è il padre della ragazza. In un lungo post su Facebook ripercorre il calvario della figlia Lisa, adottata all’età di 5 anni assieme ai suoi due fratelli. Trovate tutto il racconto di seguito. La mamma è Margherita Eichberg. Qui trovate anche una sua testimonianza video.
Anticipo che oggi i genitori hanno fondato l’associazione L.I.S.A (Lottiamo insieme per la salute degli adolescenti) per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni e far sì che errori simili non accadano più.
Dal resoconto emerge la situazione critica dell’ospedale Bambin Gesù di Roma (dove è avvenuto il trapianto sbagliato): una struttura all’avanguardia ma che oggi fatica a far fronte alle richieste. “Hanno un carico di lavoro esorbitante, Lisa faceva le trasfusioni in piedi, tanti erano i bambini e i ragazzi bisognosi di cure: non c’era posto per tutti. Siamo contenti di apprendere che l’ospedale Umberto I abbia aperto un’Oncologia pediatrica, il Bambin Gesù non può occuparsi di tutto il Centro-Sud Italia: sta lavorando in regime di monopolio”.
La malasanità
Lisa è morta nel novembre 2020 per effetto di un trapianto di midollo avvenuto con donatore non compatibile, pur avendo un fratello risultato compatibile da esami svolti nello stesso ospedale “ma l’esistenza del fratello e la sua compatibilità con Lisa sono stati ignorati”, hanno denunciato i genitori.
La ragazza è stata ricoverata 52 giorni durante i quali non vi è mai stata una comunicazione seria con la famiglia, a Lisa sono stati fatti due prelievi di midollo che secondo il padre si sarebbero potuti fare in regime di day hospital. I genitori si sono sentiti trascurati, non hanno mai potuto partecipare alle scelte dei sanitari e neppure conoscerle con anticipo.
La minaccia
Quando il padre, sfinito dai lunghi giorni di attesa e dal continuo essere tenuto all’oscuro, ha chiesto di portar via la figlia dall’ospedale, gli è stato risposto che se lo avesse fatto gli sarebbe stata tolta la patria potestà.
“A quel punto ho ceduto e ho lasciato Lisa al Bambin Gesù – racconta il padre con la voce rotta – ero circondato da persone che mi sconsigliavano questa strada, alla fine la ribellione ai medici è sempre rivolta contro noi stessi”.
Cosa chiediamo al governo
Gli errori umani accadono, si è sempre disposti a perdonare quando c’è la buona fede e i familiari comprendono che è stato fatto tutto il possibile per salvare un loro congiunto. Quello che non si può perdonare – ci uniamo al dramma dei genitori Federico – è come la pandemia abbia trasformato in peggio le strutture che dovrebbero essere votate alla cura. Gli ingressi vietati ai parenti, il vuoto comunicativo tra medici e famiglia, le decisioni calate dall’alto, fino alle minacce di togliere la patria potestà nel caso dei figli minori o al proibire un’ultima carezza ai corpi senza vita dei genitori morti. Servono fondi, senz’altro. Più risorse umane ma che l’aggettivo ‘umane’ diventi prioritario. Dal punto di vista medico, poi, è urgente aprire una riflessione sulle infezioni ospedaliere resistenti agli antibiotici. Ormai si contano sulla dita di una mano quanti affrontano un’operazione senza infettarsi. E altro che coronavirus. Fino a poco tempo fa i politici conquistavano voti dicendo in pubblico che si sarebbero occupati delle persone fragili. Chi è più fragile di una persona che necessita di un intervento e si ritrova esposto alle infezioni nosocomiali? Perché dei tanti fondi dirottati dal Covid non ne viene destinato qualcuno per affrontare la questione dei batteri resistenti?
Pubblico il racconto del padre e invito la direzione del Bambin Gesù a una replica.
Il racconto del padre
La bella foto che allego ritrae a destra il fratello Bogdan, a sinistra il fratello Slavik, che ora con la sua famiglia nella sua Krivih Rih cerca di evitare di finire sotto le bombe. Al centro invece lei, Lisa, centrata in pieno e vittima dall’esplosiva disumanità della nostra Sanità pubblica.
Mai più come per Lisa.
L’adozione dei 3 figli
Sono passati quattordici anni esatti da quella fredda mattina di gennaio in cui Maurizio Federico e sua moglie Margherita Eichberg si presentarono per l’ennesima volta al tribunale dei minori di Krivoj Rog, in Ucraina. Ghiaccio e neve dappertutto, ma i cuori riscaldati dalla possibilità di una conclusione di una travagliata vicenda giudiziale per l’adozione di due fratellini. Dall’ottobre del 2008 in poi, c’erano voluti tre viaggi per conoscere i due bambini, Yelisaveta di 5 anni e mezzo e Bogdan di 7, e cercare di portarli in Italia. Non bastarono tre udienze. Nel gennaio 2009 i coniugi romani dovettero affrontare l’ultimo scoglio e superare un ricorso: i giudici puntavano all’adozione di un fratellastro più grande, ospite in un altro istituto, ma che poi risultò non adottabile perché riconosciuto dal padre naturale. «Lisa e Bogdan hanno saputo conservare buoni rapporti con i loro fratelli, per fortuna», raccontano Maurizio e Margherita. «La loro adozione è andata bene, erano ancora abbastanza piccoli e pieni di un entusiasmo incosciente. Non si sono mai spaventati per la differenza linguistica, tra di loro comunicavano nella lingua madre ma hanno imparato molto in fretta a parlare l’italiano: i cartoni animati li hanno aiutati molto, in questo».
I primi segnali della malattia di Lisa
Tutto filò splendidamente sino al 2020. Un giorno Maurizio notò tanti piccoli lividi sul corpo di Lisa. «Inizialmente pensammo che fossero stati causati da pizzicotti troppo affettuosi del fidanzatino», spiegano i due genitori. «Ma poi capimmo che c’era dell’altro. Facemmo un emocromo, e risultò che le piastrine erano molto basse. Al pronto soccorso del Bambin Gesù la ricoverarono immediatamente e trattennero Lisa 52 giorni in osservazione, in maniera del tutto ingiustificata. In tutto, durante quei 52 giorni le fecero due puntati midollari e si accorsero che il suo midollo funzionava male poi le diagnosticarono la cosiddetta RCC (“Refractory Cytopenia of Childhood”), un’aplasia midollare dell’infanzia-adolescenza che richiede in prima istanza una terapia immunosoppressiva e, solo come terapia di seconda linea, il trapianto di midollo osseo.
Il ricovero di 52 giorni, senza un medico che desse spiegazioni alla famiglia
Venne ricoverata 52 giorni solo per arrivare ad una diagnosi. Decisero immediatamente per il trapianto. Ma quando compresero che la ricerca di un donatore compatibile non stava dando i frutti sperati, agli inizi dell’agosto 2020, concessero a Lisa di tornare a casa e di recarsi in ospedale in regime di Day hospital, durato poi due mesi. Tenete presente che, almeno in apparenza, nostra figlia stava benissimo: viveva una vita normale, senza problemi.
Nella ricostruzione fatta da alcuni giornali, si parlò di leucemia. «Una notizia non vera, saltata fuori per un malinteso, un clamoroso equivoco: molte persone associano il trapianto di midollo alla leucemia. Lisa aveva un ottimo sistema immunitario, veniva considerata particolarmente resistente perché non aveva mai avuto malattie al di fuori di quelle esantematiche. Ad esempio, pur dormendo in camerata, non prese la Tbc che circolò pesantemente all’interno dell’orfanotrofio dove viveva».
Il donatore non compatibile
Agli inizi di ottobre del 2020 individuarono una donatrice ritenuta compatibile. All’atto dell’ultimo, tragicamente definitivo ricovero, al Bambino Gesù ospitarono sia Lisa che la madre, la cui presenza era necessaria perché la ragazza era ancora minorenne. «Eravamo ottimisti, Lisa stava bene, non ricordo che abbia mai preso un raffreddore», sottolinea la mamma. «Invece la situazione è precipitata molto presto. Tra le altre cose, hanno anche impiegato una chemioterapia inutilmente aggressiva, quando gli stessi medici del Bambino Gesù avevano praticato e pubblicato la possibilità, per i casi come quelli di Lisa, di preparare i pazienti alla donazione con trattamenti chemioterapici molto meno aggressivi».
In tanti hanno fatto la domanda più logica: come mai si è preferito scegliere il donatore all’esterno e non tra i suoi familiari di sangue? «È la domanda che ci siamo posti anche noi quando ci siamo resi conto che il midollo da donatrice identica era di pessima qualità», spiegano Margherita e Maurizio. «In verità, nel luglio 2020, quando tipizzarono Bogdan, i medici del Bambino Gesù verificarono che il fratello era aploidentico (e quindi le sue cellule staminali ematopoietiche avevano caratteristiche genetiche identiche per metà con quelle di Lisa), rappresentando perciò un’ottima alternativa al midollo da donatrice non familiare. Due giorni prima della morte di Lisa, il primo novembre 2020, quando le cose erano ormai precipitate a causa della pessima qualità della donazione midollare ormai infusa a Lisa, chiesi all’ematologo che la aveva in cura come mai non avessero pensato a Bogdan invece di infondere quel litro di “veleno”. Lui cadde dalle nuvole. “Ma come, il fratello non è negli Stati Uniti? Ne parlo subito con i colleghi che hanno in gestione i database del Bambino Gesù”. La risposta, agghiacciante, fu che non risultava alcuna analisi di tipizzazione riguardante Bogdan. Quell’approccio così superficiale ci fece capire già molto di quell’ospedale. La verità fu che al Bambino Gesù il 16 ottobre infusero una donazione di midollo osseo contenente meno di un terzo del numero minimo di cellule staminali ematopoietiche necessarie per sperare in un attecchimento. Avrebbero dovuto chiamare il donatore di riserva, cioè Bogdan, ed eliminare quella donazione inutilizzabile. Non lo hanno fatto. Un giorno, spero, spiegheranno».
Il fatto fu che, vista la scarsità di cellule utili, i medici del Bambino Gesù decisero di non eliminare i globuli rossi dalla donazione, come in genere si fa in caso di incompatibilità AB0 del sangue tra donatore e ricevente. Infatti, mentre la donatrice aveva (ha) il sangue di tipo AB, Lisa aveva il sangue di gruppo 0, e, a causa delle varie trasfusioni fatte anche con concentrati piastrinici da donatori di gruppo A e/o B, aveva sviluppato anticorpi contro gli antigeni A e B. «I medici del Bambin Gesù hanno giocato d’azzardo, utilizzando la donazione così com’era, senza eliminare prima i globuli rossi», spiega Maurizio Federico. «Infondere l’equivalente di 350 millilitri di globuli rossi incompatibili ha fatto scatenare immediatamente un’emolisi intravasale, che ha provocato sofferenze atroci alla povera Lisa per le 12-13 ore in cui è durata l’infusione. Poi è iniziata l’emolisi extravasale, che ha intaccato tutti gli organi vitali con uno stato infiammatorio che ha colpito in primis il cuore, e poi fegato, reni e polmoni. Purtroppo Lisa non ce l’ha fatta. In medicina ci sta l’errore anche da parte di un chirurgo, perché siamo tutti fallibili. Ma qui è accaduto qualcosa di grave, una catena di negligenze inspiegabili. La vicenda di Lisa rappresenta un’icona di un sistema sanitario pubblico che non funziona più».
C’è un diritto alla verità?
«Un mese dopo la morte di Lisa, abbiamo ritirato la sua cartella clinica che abbiamo spulciato parola per parola. Rilevata una serie di errori e incongruenze, ne abbiamo discusso con un pool di avvocati». Da lì un percorso tortuoso fatto di perizie. «Chi muore lì dentro non ha il diritto alla verità, perché si tratta di un ospedale extraterritoriale che sfugge ai controlli del nostro Paese», commenta Margherita. «Quando abbiamo cercato i periti di parte, ci siamo scontrati contro un muro di gomma: tutti, seppure con motivi differenti, ci dicevano di temere le conseguenze di un pronunciamento contro il Bambino Gesù. Per la parte ematologica, alla fine abbiamo trovato un esperto di Bologna. Per la perizia trapiantologica si è pronunciato un luminare di Cagliari. Una appassionata medico legale di Alba ha completato il quadro delle tre perizie di parte. A quel punto abbiamo finalmente sporto denuncia grazie a un avvocato molto agguerrito».
Il PM a cui è stato assegnato il caso ha incaricato alcuni periti che, addirittura, hanno rilevato errori procedurali che neppure i periti di parte avevano individuato. In base a questa perizia, il PM ha chiesto il rinvio a giudizio per due medici apicali del reparto, ma chiese anche l’archiviazione del responsabile del reparto di oncoematologia, Franco Locatelli. Il GIP Francesca Ciranna, a fronte dell’opposizione dei genitori di Lisa, ha respinto la richiesta di archiviazione- Locatelli rimane indagato, ed il prossimo 15 marzo ci sarà presso il Tribunale di Roma l’udienza preliminare che dovrà stabilire se rinviare a giudizio o meno i due medici apicali del Bambino Gesù.
A compimento della tragedia, Maurizio e Margherita avevano avviato una petizione sulla piattaforma Change.org per chiedere di inserire nei protocolli nazionali la obbligatorietà di un donatore di riserva nei casi di trapianto di midollo osseo, opportunità tristemente negata a Lisa nonostante la disponibilità del fratello Bogdan. «Con l’appoggio delle 85mila firme raccolte, siamo riusciti a fare in modo che il Ministero della Salute, di concerto con gli enti preposti, il CNT dell’Istituto Superiore di Sanità, IBMDR e GITMO, emanasse una direttiva nazionale a tutti i centri trapiantologici italiani con la quale si raccomanda fortemente la disponibilità di un donatore di riserva per tutti i casi di trapianti di midollo osseo. Questo importante risultato venne ufficializzato il 3 agosto 2021, esattamente e simbolicamente a 9 mesi dalla morte di Lisa. Questo importante risultato, lo sappiamo per certo, ha già salvato la vita ad almeno una bambina proprio in quell’ospedale. Questo importante risultato è già una rivalsa per la povera Lisa».
La trasformazione del dolore
In seguito la famiglia di Margherita e Maurizio ha costituito l’associazione L.I.S.A., acronimo di “Lottiamo insieme per la salute degli adolescenti”. «Vorremmo evitare che altre persone patiscano ciò che abbiamo subìto noi», spiegano. «Ci adoperiamo per garantire il pieno rispetto dei diritti dei piccoli e giovani malati. Organizziamo e promuoviamo confronti per l’aggiornamento sulla diagnosi e sulle terapie delle malattie onco-ematologiche dell’età pediatrica e adolescenziale. Monitoriamo le terapie praticate e le procedure trapiantologiche di midollo, anche raccogliendo informazioni dai pazienti e dai loro parenti. Infine, ci attiviamo per il miglioramento dei protocolli dei trapianti di midollo e di cellule emopoietiche e staminali, sorvegliandone l’applicazione. Crediamo in una sanità migliore di quella che si riscontra in molte strutture ospedaliere italiane».