Non vi siete accorti che vi sta solo prenden­do in giro? Perché è questo che lui fa. Vi offre il suo ego e vi guarda men­tre lo fate a brandelli, pezzo do­po pezzo, sacrificato, sbranato, strappato, lacerato. Occhi negli occhi. Carne compiaciuta lui, voi cani randagi. Questo pensie­ro ti arriva mentre state parlan­do, sotto i chiaroscuri di un hotel di via Veneto. «Non ne avete ab­bastanza di Aldo Busi? Non vi esce dalle orecchie?». No. O sì. Non im­porta. Conta inve­ce che fino a quan­do consumeran­no quel Busi, l’al­tro si salverà. E l’altro è il motivo per cui stai qui.

L’altro ti ha te­nuto sveglio due notti con un ro­manzo dal titolo che fa di tutto per non farsi compra­re: El especialista de Barcelona ( Da­lai editore). Un li­bro tirato per 60mila copie quando sembra­va che nessuno volesse davvero pubblicarlo. La voce di un uomo seduto in uno slargo di Barcellona davanti a una foglia di platano, con la qua­le qualcuno potrebbe pensare che si sta confessando. Non i suoi peccati, ma la miseria degli altri. E ci vuole un immenso ta­lento o un’infinita innocenza per guardare queste umanità nu­de e avide, vili e meschine, dan­natamente umane, senza assol­verle o condannarle, senza di­sgusto, senza fuga o remissione, in fin dei conti amandole. Ci vuo­le Goya.

O forse Busi, l’altro. È per que­sto allora che stai qui. Per lo scrit­tore. E non te ne frega nulla delle dediche, nep­pure quella a García Lorca, figurati a Gar­zón e a In­groia. «Ma se Ingroia si met­te in politica la cancello», dice. Perché è di questo che vorrebbe farti parlare. Di questo e di altre cose gettate per terra. Ti invita al banchetto. Solo quando vede che rifiuti il pasto, lui comincia a raccontarsi. Esce questa storia della prima comunione. Di quando per com­pra­rsi i pantaloni buoni organiz­za il lotto. Nove anni. È un bambi­no. E si mette a vendere i bigliet­ti. Quello vincente sarà il primo estratto sulla ruota di Milano. Il montepremi sono lenzuola com­prate a credito. «Piazzo 76 nume­ri su novanta. Il vincente non è tra quelli venduti. Mi compro i pantaloni e mi tengo le lenzuola. Nella vita c’è sempre un po’ di fortuna nella disgrazia».

Che numero uscì?

«Credo fosse il 32».

Come si diventa Busi?

«Con il talento. È il solo regalo che ho avuto dal luogo dove so­no nato. I miei erano una fami­glia di locandieri, gente di taver­na. Mio padre aveva questo bar, il Bar Fiat, perché si trovava al­l’angolo della rivendita delle macchine. A Montichiari c’era un’importante fiera di bestia­me. Era un crocevia di genti e di dialetti, che io assorbivo e consu­mavo. Da qui viene la mia lin­gua. Non dall’italiano dei sinda­ci, dei farmacisti, dei preti».

Cosa si aspetta? Cosa vorreb­be che le fosse riconosciuto?

«E cosa possono riconoscer­mi? Ho 64 anni e tutto quello che può accadere mi lascerebbe in­differente. Lo Strega? Sai quanto mi cambia la vita ormai. Magari il Nobel. Quello me lo andrei a prendere. Per i soldi e per arriva­re in Svezia vestito come Rita Hayworth. Perché se vai a pren­derti il Nobel devi andarci così».

Adesso. E prima?

«Prima cosa?».

Cosa si aspettava?

«Prima sì. Mi aspettavo che qualcuno capisse il lavoro che ho cercato sempre di fare con i ro­manzi. La manutenzione degli umani».

Si sente vecchio?

«Lo sono».

Quando ha pensato per la prima volta: sono vecchio?

«Molto presto. Mi fanno orro­re i vecchi. Quindi ho passato una vita a pensare alla vecchia­ia ».

C’è un momento preciso?

«C’era un ragazzotto che non mi piaceva neppure tanto. Bello. Palestrato. Ma è la voce la chiave per arrivare a me. Comunque stavamo lì, vicini, per capire se era il caso di avvicinarsi, toccar­si, e io in fin dei conti non avevo nulla da fare. Gli chiedo. “Per­ché ti interesso?” “ Mi sono sem­pre piaciute le persone anzia­ne”. L’ho fatto filare, via via. La vecchiaia la vedi solo nello sguar­do degli altri».

Come si vede Busi?

«Non è stata una vita facile. No, non lo è stata per niente».

Perché? Per i pregiudizi, per l’omosessualità? Per cosa?

«No. Perché non sono stato ca­pace di tenermi qualcuno accan­to. Perché non è facile vivere con uno che passa i suoi giorni in ca­sa a leggere e a scrivere e che si chiude e non è programmato per condividere lo spazio. Per­ché ho amato delle persone. Ma ogni volta le ho tenute a una cer­ta distanza, perché io non riesco a fare sesso con chi amo. Non ci riesco proprio. E vai a capire qua­le trauma mi porto dentro, di quelli che non puoi farci nulla, per quanto uno sia bravo a rimet­tere insieme i pezzi e a fare i conti con se stesso. Oppure chiamia­mo tutto questo solitudine. Quel­la che ha attraversato la mia vita, che ho provato a strapparmi di dosso, donandomi agli altri. Ora però sono vecchio e posso pren­dermi cura di me stesso».

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