«Io sono sempre stato un tipo zelante e scrupoloso. se in una giornata riesco a realizzare bene un lavoro sto meglio, persino fisicamente, provo una specie di liberazione. Mi definirei un doverista». Non lasciatevi ingannare. L’uomo con il cappotto grigio spinato, elegante, con il collo della camicia alto e la cravatta nera che cammina quasi distratto per via Solferino, seguendo la linea dei binari del tram, non è di questo mondo. A qualcuno sembra di riconoscerlo, forse per il vago accento veneto o per il naso lungo e dritto, per i capelli corti da ufficiale di marina. È Dino Buzzati e notoriamente è morto. Ma non è questo il problema. Qui, in queste pagine, si parla di lui per tutta un’altra storia. Ti chiedi, ogni tanto, dove sono andati a finire quelli come lui. Qualche volta li intravedi per strada, come in una fotografia in bianco e nero, o ricevi una telefonata da quel tuo caro amico che riconosci, in fondo, come figlio legittimo di quella razza. Nulla di strano, nulla di eccezionale. Non sono supereroi e neppure naufraghi famosi. Nessuno di loro conquisterebbe un castello auditel in quel posto che è ormai la prova ontologica dell’esistenza di sé e degli altri. Bastarda tv, ti resta da dire. Dino Buzzati, reporter, cronista, estensore di notizie, corrispondente di guerra, inviato speciale, critico di cinema, teatro, arte, opera lirica, responsabile di una terza pagina da gran salotto lombardo, pittore, visionario, graffitaro, vice-direttore della Domenica del Corriere, austero, metodico, preciso, alpinista non solo della domenica, con certe zone d’ombra nella mente e piccole deviazioni del cuore, capace di innamorarsi di una ballerina puttana e cocainomane e di raccontare questo amore a tutti, ma soprattutto a se stesso. Certo, scusate, anche Buzzati narratore, scrittore, con quei racconti da veggente e la paura della morte e della malattia. Buzzati è tutto questo ed è un’idea di borghese, proprio borghese con tutti i crismi che questa parola, questa identità, sputtanata e crocefissa si porta dietro. Borghese nei modi, in quel modo di scrivere e parlare così garbato, nel senso della misura, nel metodo e nel pensiero, nel frequentare certi amici che bene o male si riconoscono la sera in un’idea di mondo in cui fortuna e caso, Dio e coscienza, ricchezza e amore, patria e famiglia, uomo e donna, sapere ed esperienza, casa e viaggio, silenzio e parole, bellezza e intelligenza, dovere e talento hanno, con sfumature individuali, più o meno la stessa dignità.

Morto? No. Quell’uomo si è solo defilato per un paio di stagioni. è una questione di educazione, o una mezza malattia. Quando tutti si accalcano, sgomitano, ti passano avanti con lo sguardo convinto di chi dice: “conosco qualcuno lì davanti che non ama aspettare”, lui, il borghese per istinto, si ritira contro il muro, si mette a sedere e attende con dignitosa rassegnazione che il caos si calmi. Non scusa nessuno, anzi è anche rabbuiato per questo sfoggio di menefreghismo, monta il disprezzo, ma sa anche che ci sarà un momento critico in cui la massa mostrerà tutta la sua inconsistenza e allora gli uomini torneranno a parlare. La vita è una maratona, alla lunga la tenacia, l’educazione alla fatica, la resistenza, i nervi, l’orgoglio saranno indispensabili, chi non ce la fa si ferma e strabuzza gli occhi. Cade. Rinuncia. Neppure le conoscenze giuste serviranno. È quasi il momento di dirlo ora. Il tempo di Buzzati è tornato. Te ne accorgi quando parli con quel giovane collega di lavoro che tutti i santi giorni arriva con una manciata di idee, alcune buone altre sorprendenti. Lo vedi quando come un ladro, vergognandosi, archivia le notizie scovate su un quotidiano americano. Sai che le metterà da parte per tempi migliori, quando quelle notizie oggi povere per il mercato dell’informazione aumenteranno di prezzo, perché il segreto è questo, tirarle fuori al momento giusto. Te ne accorgi, di questo tempo che ritorna, nella sana consapevolezza di un capo redattore centrale che fa tutto quello che si deve fare senza aspettarsi nulla dall’alto. E sorride alla sua buffa sorte, se il successo arriva non sarà solo e soprattutto per il suo lavoro, ma per un capriccio degli dei, esseri volubili e lontani che qualche volta premiano anche il lavoro. Te ne accorgi nello sguardo di una ragazza che ha smesso di maledirsi e ora si ama un po’ di più e non naviga alla ricerca dell’oblio, ma fa rotta verso quegli obiettivi che la sua intelligenza lucida, da istinto animale magico e imprevedibile, traccia ora senza più paura e i fantasmi del passato. Te ne accorgi nel coraggio di una madre che non usa i suoi figli, magari due gemelline inaspettate, per fuggire dai suoi doveri di lavoro, donna che riesce in questi tempi di giustificazioni a essere madre senza sentirsi dimezzata.

Ora la borghesia sa che Buzzati non è solo un’eccezione, ma un esempio, uno dei tanti, da raccontare con orgoglio. Quasi una parola magica. Quando vedi i processi da bar di Porta a Porta: Buzzati. Quando le bandiere della pace svendute nei mercatini equi e solidali della multinazionale no global sventolano alla finestra: Buzzati. Quando ti dicono che l’Italia del debito pubblico va fatta pagare solo agli artigiani e ai commercianti, ma non ai bidelli e ai professori con permesso sindacale: Buzzati. Quando il lavoro è solo un diritto e mai un dovere: Buzzati. Quando le intercettazioni dell’autorità giudiziaria sono un pettegolezzo: Buzzati. Quando la stagista in carriera ti chiede di ritirare la sua firma perché le hai cambiato una virgola nel pezzo tu puoi dirgli: Buzzati. Come un’invocazione, come un esorcismo. Buzzati, scrittore di fama, che al processo di Rita Forte, sta sotto la pioggia con gli altri cronisti ed un taccuino in mano a raccogliere le voci dei parenti, con il risvolto dei pantaloni in ordine e la pazienza di chi fa il suo lavoro sempre allo stesso modo, su una nave da guerra, in un bar di provincia o alle Olimpiadi di Tokyo. Buzzati, quello fotografato da Gaetano Afeltra all’alba del 16 luglio ’47. «Mottola mi informò verso mezzanotte della tragedia di Albenga, dove una motobarca con ottantadue piccoli ospiti di una colonia milanese era caduta a picco a poca distanza dalla riva: quarantatrè bambini erano annegati insieme con le maestre. Pensai subito a Buzzati, che era lì a portata di mano e ignaro di tutto sorbiva tranquillamente il suo caffè. Mi avvicinai a lui e frettolosamente gli dissi: “Sbrigati Dino, devi partire per Albenga”. Gli spiegai quello che era successo. Dino non voleva andare. “Non fare storie – replicai – questo è un servizio per te”. Lo convinsi. Partì all’istante, senza nemmeno passare da casa. Avremmo provveduto noi a mandargli quello che gli sarebbe servito. “Ma almeno la macchina da scrivere”. “Stanotte scrivi a mano”. Scrisse in auto su un quaderno a righe che aveva appena comprato in una tabaccheria a quell’ora aperta, perché quella notte tutta Albenga era nelle strade. Il servizio cominciava così: “I quarantatrè bambini dormono, distesi fianco a fianco, assolutamente inverosimili”».

 L’etica del tenente Drogo
«Nominato ufficiale, Giovanni Drogo partì una mattina di settembre dalla città per raggiungere la fortezza Bastiani, sua prima destinazione». È l’inizio del Deserto dei tartari
. Qui c’è tutta la morale di Buzzati. «L’idea del romanzo mi è venuta quando ero in redazione al Corriere della Sera. Per un certo periodo, tra il 1933 e il ’38, ci ho lavorato di notte, un lavoro di ruotine. Accanto a me c’erano colleghi della mia stessa età, ma la maggior parte erano più vecchi di me. Alcuni erano già molto anziani. Tutti da giovani avevano sperato di poter fare qualcosa di più brillante, di fare gli inviati speciali per esempio, cioè di fare grandi reportages, di viaggiare per il mondo, eccetera. E poi a poco a poco si erano fossilizzati lì, nella redazione, rinunciando progressivamente alle loro speranze. E questa grande occasione in cui ognuno di loro aveva sperato si era fatta sempre più lontana e improbabile e si era perduta del tutto. Questa monotonia del lavoro mi ha fatto venire in mente di scrivere una storia in cui venisse riassunto il destino dell’uomo medio, dell’uomo che spera in questa grande occasione, che fa di tutto per farla venire, e questa occasione appare, sembra che stia per realizzarsi e poi scompare e se ne va via». Accettare questo senza rinunciare mai del tutto a sperare è la più grande forma di coraggio. La speranza è un investimento senza alcuna sicurezza. Non è garantita la vittoria e alla fine, forse, anche la vittoria non conta nulla. Ma nella fortezza Bastiani nessuno si ritira, nessuno lascia il suo posto, nessuno pretende dal governo, come diritto inalienabile, che i tartari arrivino davvero. Non è rassegnazione, ma neppure rivoluzione. È semplicemente vita. La forza del tenente Drogo e dei suoi soldati è nell’uomo che rinuncia al superuomo, senza rinunciare alla dignità della sua condizione. È accettare un limite, senza disperare. Drogo non ha la stessa presunzione di chi rivendica il paradiso in terra. Quello che verrà dall’aver fatto il proprio dovere non è il paradiso, non è l’utopia, ma ti mette al riparo dal terrore e dal sangue. Il disastro arriva quando l’uomo non fa il suo dovere ed allora è l’apocalisse, quella che Buzzati tratteggia in poche righe quando racconta la tragedia del Vajont: «Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi».

Non serve rivendicare una patente di destra per il tenente Drogo. L’ufficiale, come Buzzati, trovava inutili le etichette ideologiche. «Buzzati – raccontava Montanelli – di politica non parlava mai. Non credo che avesse delle concezioni politiche. Debbo però aggiungere che quest’uomo, questo scrittore, questo giornalista che non si interessava mai di politica aveva poi delle intuizioni straordinarie anche sulla politica. Lo si vide subito dopo la guerra quando scrisse Paura alla Scala. Era veramente l’intuizione di ciò che stava per succedere in Italia». Buzzati aveva delle roccaforti ideali, alcuni principi su cui costruire una solida visione del mondo: il dovere, il rispetto sacro per la natura, la terra, i monti, l’acqua, l’aria, il fuoco e un’idea della realtà indefinita, come se il tutto non si limitasse al qui e adesso, ma avesse qualcosa di vago, fantasmi, voci, mondi diversi che si incrociano in una dimensione quantica, dove il limite tra fisica e metafisica varia tra lo zero e l’infinito. «Io sono un uomo ormai vecchio che ha trascorso la propria vita cercando di capire quello che gli accadeva intorno, quello che gli accadeva dentro. Non mi sono mai dato arie da superuomo. Non ho mai fatto cose eccezionali. Poiché dovevo guadagnarmi il pane quotidiano, ho scelto la professione del giornalista perché mi è sembrata la più adatta ai miei mezzi. Intanto, cammin facendo, ho cercato, con la penna e poi anche con i pennelli, di raccontare delle storie. Se una sola di esse è riuscita, o riuscirà, a toccarvi il cuore, vuol dire che non ho lavorato inutilmente».

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