Il fallimento (morale) delle banche
I più pessimisti, di solito, sono i tassisti. La radio è la loro compagna di viaggio e in questi giorni ascoltano, scuotendo il capo, le croci degli indici di borsa, come una litania funebre. Tengono il conto delle banche che chiudono, ma proprio loro, così corporativi, si lanciano in lunghe maledizioni: «Hanno fatto i soldi sui nostri debiti. Ci hanno dissanguato. Ora possono pure crepare».
Qui, a livello della strada, l’opinione più diffusa è che le banche falliscono per troppa avidità. Non è un giudizio scientifico, ma etico.
È per questo che i tassisti, senza troppa coerenza, sopportano con un certo mal di stomaco il salvataggio dello Stato.
La questione che tiene in ansia i tassisti, e miliardi di altre persone, quando rimbalza sui giornali diventa un po’ più filosofica.
Il crac dei mutui, il nome con cui questa crisi rischia di passare alla storia, rispolvera tutti i nostalgici del New Deal. Tutti quelli che avevano sbuffato contro il liberismo, bestemmiato Reagan e la Thatcher, e digrignato i denti davanti alle ricette dei Chicago Boys, ora stanno lì a ripetere: ve l’avevamo detto. E così sia.
Il passo successivo è mettere in croce l’efficienza del libero mercato.
Come si sa questa è una tentazione antica e ha a che fare con la scelta tra sicurezza e libertà.
La sicurezza significa Stato, la libertà è la dea del mercato. L’unica cosa certa è che, finora, nessuno ha trovato un’alternativa reale al capitalismo. Chi ci ha provato ha prodotto disastri umani, politici e economici.
Il problema, come sosteneva Schumpeter, è che il capitalismo ha un brutto carattere: crea e distrugge. Quando gli uomini esagerano e cercano scorciatoie per arrivare al cielo, il dio mercato li riporta con i piedi per terra. Le crisi servono anche a questo. È una lezione di etica. Adesso tocca allo Stato. Intervenire o no?
È quello che sta accadendo adesso.
Quando il capitalismo mostra la sua faccia cattiva più di qualcuno dice: è moribondo. Non regge più. Succede ogni volta che passa il ’29. È, insomma, un vecchio errore, la paura di uno sguardo miope.
La svista sta tutta nel dimenticare che il capitalismo non è cinico, ma etico.
Si basa su alcuni imperativi morali. Lo sapevano i mercanti medievali, quando sancivano la santità dei contratti. Un uomo che non rispetta i patti è finito, perde la faccia, non ha credibilità, non ha onore. E il mercato lo punisce.
Non è un caso che Adam Smith, padre della scienza economica, insegnasse filosofia morale a Glasgow. La sua Teoria dei sentimenti morali viene prima della Ricchezza delle nazioni.
L’etica del capitalismo è spietata. Punisce gli errori e si basa sul principio che chi sbaglia paga.
Il capitalismo diventa cattivo quando i suoi attori lasciano negli scantinati l’etica. Il capitalista deve ricercare il profitto, ma si muove su un crinale insidioso. Se esagera, cade. Se fa male i conti, cade. Se bluffa, senza carte, cade. Se imbroglia, prima o poi, cade.
Hanno ragione i tassisti: si può morire di troppa avidità.
È vero. Abbiamo giocato con il futuro, ipotecandolo. Non solo l’America, anche gli italiani si sono ritrovati nel portafoglio un ventaglio di carte revolving, con banche e finanziarie che ti facevano il disegnino della clessidra, tu spendi e la sabbia scende giù, poi ogni mese versi qualche euro e la piramide superiore torna a riempirsi. Facile.
Peccato che c’è sempre una buona ragione per spendere, e per indebitarsi, tanto poi si paga un po’ alla volta. Risultato: la sabbia andava giù in picchiata.
La verità è che i debiti, mentalmente, li metti da parte. Una rata, un mutuo, un prestito, un altro finanziamento per pagare il primo e via così, fino a quando lo stipendio stramazza.
Le banche ci hanno giocato, speculando fino all’ultima goccia di denaro, e alla fine siamo rimasti tutti strozzati. A troppa gente lo stipendio non bastava più. Il carnevale del credito facile è finito. Mangio o pago i debiti? Mangio. E il debito fa crac.
Tutti si sono comportati come Il Giocatore di Dostoevskij, o se si vuole come Marco Baldini, la spalla di Fiorello. C’è sempre un domani in cui le cose si aggiustano. Ci sarà sempre un direttore di banca dal cuore d’oro che ti concede un po’ di respiro. C’è sempre la pensione della nonna a cui aggrapparsi. Poi, un giorno, il buio. Non c’è più futuro da impegnarsi. Zac. Ti chiedono di rientrare, ora, subito, adesso. Provi l’ultimo gratta e vinci e ti va male. Fregato.
Immaginate, ora, che questo non capiti solo a voi, ma a milioni di persone. Risultato: anche i creditori non hanno più soldi. E i governi a dire: ma non potevano accorgersene prima? No, tutti ubriachi di ottimismo revolving. È andata così. Non dite ora che il capitalismo di fronte a tutto questo doveva restarsene zitto. Sarebbe stato immorale.