Solo in America
Cari amici del blog Monticello, per la prima volta inizio il mio intervento con una domanda: potreste indicarmi un altro Paese al mondo, al di fuori dall’America, dove una storia come quella che abbiamo vissuto la notte tra l’8 e il 9 Novembre avrebbe potuto verificarsi? Secondo me non esiste. Non lo dico da fan sfegatato, quale sono, di un sistema politico che sicuramente perfetto non è ma che garantisce democrazia, governabilità, alternanza e un formidabile ricambio della classe dirigente. Lo affermo da normale osservatore, come immagino siate voi, di tutto quanto è appena accaduto negli Stati Uniti, dove un candidato assolutamente fuori dagli schemi, con tutti – e dico tutti – i poteri forti e i media contro, con il proprio stesso partito che gli ha messo i bastoni tra le ruote fino all’ultimo, è riuscito in un’impresa incredibile, ribaltando ogni pronostico e portando a casa un successo senza eguali.
Non sono mai stato un fan di Trump, e non lo sono diventato ora per salire sul carro del vincitore. Mi limito a osservare quanto è accaduto, come ho cercato sempre di fare in questo anno e mezzo di durissima campagna elettorale. Dopo otto anni di presidenza Obama, che pure ha avuto il merito di traghettare gli States fuori dalla più grave crisi economica dopo il 1929, un cambio della guardia era immaginabile. Il presidente lasciava un profondo malcontento: aveva acceso troppe speranze e non è mai riuscito, suo malgrado, a incidere profondamente nella vita delle persone, a parte qualche aspetto non secondario: copertura medica per chi ne era privo e creazione di molti posti di lavoro (ma evidentemente non abbastanza). L’errore più grande di Obama è stato quello di non rimettere a lucido quel sogno che lui stesso aveva acceso con le famose tre parole che gli fecero conquistare la Casa Bianca: “Yes we can”. Il sogno si è spento. O meglio, ci siamo risvegliati dal sonno scoprendo che la realtà era (ed è) molto più difficile – e complessa – delle buone intenzioni. Ricette sbagliate? Scarsa incisività? Errori strategici? Mancanza di leadership? Agli storici l’ardua sentenza. Compresi i mille dubbi sulle capacità di Obama in politica estera, con un disimpegno sempre più forte (che pure era stato chiesto dagli americani) da numerosi focolai del mondo, che avrebbe dovuto essere gestito in modo più intelligente. Intendiamoci, le colpe non sono tutte dell’America e di Obama. Sono anche dell’Europa, ad esempio, vero e proprio nano politico, praticamente inesistente sullo scacchiere politico mondiale e sempre al traino degli Usa.
Se Trump ha vinto lo deve soprattutto alle sue capacità, alla sua formidabile determinazione, alla sua leadership. Ma anche alle tante colpe di Hillary Clinton. Che gli americani non hanno più voluto perdonare, stufi com’erano di lei e del suo ingombrante marito. L’America, soprattutto la tanto evocata classe media, era stufa: così ha detto stop, si volta pagina. E per farlo va bene Trump, nonostante le sue mille stranezze e una campagna elettorale sempre sopra le righe: evidentemente non è quel mostro quale è stato dipinto mille volte.
Ma attenzione, niente tuffi nel vuoto. Il sistema americano, coi suoi pesi e contrappesi, è perfettamente stabile e in grado di reggere ai cambiamenti, anche quelli più forti. C’è un Congresso con ampi poteri, in grado di controllare e controbilanciare le scelte dell’esecutivo, c’è un vice presidente affidabile e concreto, il governatore dell’Indiana Mike Pence, e c’è una Corte suprema garante della Costituzione, i cui equilibri giocoforza ora muteranno a vantaggio dei conservatori, con la nomina del giudice che ricoprirà il seggio lasciato vacante da Antonin Scalia. Nessun terremoto e nessuna rivoluzione. L’America, come sempre ha dimostrato in oltre due secoli di storia, ha solide radici democratiche. Stavolta il rumore del cambiamento è stato forte, questo è indubbio: ha prodotto un vero e proprio boato che si è sentito in ogni angolo del mondo. Ma l’edificio ha retto: le fondamenta, checché ne dicano alcuni, sono solide. E il Paese a stelle e strisce può guardare alle nuove sfide del futuro con fiducia.
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