Per la seconda volta il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, dovrà affrontare una messa in stato d’accusa. In un clima molto teso, con un Congresso letteralmente blindato dai militari dopo lo choc per l’assalto del 6 gennaio, la Camera ha approvato la procedura di impeachment con 232 voti a favore, 197 contrari e 5 non votanti. Hanno detto sì all’impeachment 10 repubblicani. Quella di oggi è stata la votazione più bipartisan della storia americana: contro Bill Clinton nel 1998 votarono a favore dell’impeachment cinque democratici. I repubblicani che scelto di processare Trump sono: John Katko di New York, Liz Cheney del Wyoming (figlia dell’ex vicepresidente Dick Cheney), Adam Kinzinger dell’Illinois, Fred Upton del Michigan, Jaime Herrera Beutler dello Stato di Washington, Dan Newhouse dello Stato di Washington, Peter Meijer del Michigan, Tom Rice della South Carolina, Anthony Gonzalez dell’Ohio e David Valadao della California. “Speravo fossero di meno”, ha detto Jim Jordan, deputato Gop fedelissimo di Trump.

È il primo caso, nella storia, in cui un presidente viene posto sotto accusa per due volte durante il suo mandato. L’accusa è di aver incitato alla rivolta violenta (High Crimes and Misdemeanor) quei manifestanti che, il 6 gennaio, dopo aver ascoltato il suo discorso infuocato (rilanciando le accuse dei brogli) hanno preso d’assalto il Congresso, riunito in seduta comune per la certificazione dei risultati delle presidenziali. La Camera trasmetterà subito l’atto di accusa al Senato, ma l’attuale leader repubblicano, Mitch McConnell, fa sapere che intende aspettare che si insedi la maggioranza democratica al Senato, il 19 gennaio prossimo, per aprire il processo. “La nazione sarà servita meglio – ha detto – se il Congresso e il ramo esecutivo trascorreranno i prossimi sette giorni completamente concentrati nel facilitare un insediamento sicuro e un trasferimento ordinato del potere all’amministrazione Biden”.

Dibattito infuocato

Trasmesso in diretta tv, il dibattito alla Camera ha palesato la divisione in seno al Partito Repubblicano. Jim Jordan, il deputato dell’Ohio che aveva guidato la difesa di Trump nel primo impeachment (caso Ucraina), ha ricordato ai colleghi che per mesi e mesi sono state sin troppo tollerate le gravi violenze scatenate nel paese dagli estremisti di sinistra, puntando il dito soprattutto contro il movimento dei Black Lives Matter. La maggior parte dei deputati conservatori gli ha dato ragione, ma qualcuno ha ricordato che Trump ha delle responsabilità sui fatti del 6 gennaio. C’è chi proposto di concludere tutto con una censura bipartisan, per evitare l’impeachment, ma questo tentativo di compromesso è sfumato.  Al momento della votazione dieci esponenti repubblicani hanno votato contro il presidente. Tra loro spicca Liz Cheney, esponente di quell’anima del Gop che mai ha sopportato il trumpismo. In aula Cheney ha detto che “Trump ha acceso le fiamme a Capitol Hill”. Democratici compatti dietro a Nancy Pelosi, che ha dettato la linea: “Il presidente ha incitato all’insurrezione, non ha difeso la Costituzione e rappresenta ancora un chiaro pericolo per la Nazione. Se ne deve andare. Il Senato lo deve condannare”.

Cosa succederà al Senato?

Per l’approvazione l’impeachment necessita del voto dei 2/3 dei senatori (67 su 100). McConnell ha già anticipato che non convocherà una sessione di emergenza. Questo avrà come conseguenza il ritardo della discussione, che i democratici avrebbero voluto accelerare per non rallentare in alcun modo i lavori dell’amministrazione Biden subito dopo l’insediamento. Ma cosa succederebbe se Trump venisse “condannato”? La pena è la rimozione dall’incarico e, in alcuni casi, l’interdizione dai pubblici uffici. Nel caso di Trump, giunto a fine mandato, l’unica conseguenza è che non potrebbe più ricandidarsi nel 2024, qualora volesse farlo (l’impeachment negli Stati Uniti, tra storia e regole). Dal 1967 la costituzione americana prevede anche la possibilità di ricorrere ad una procedura di emergenza (il 25° emendamento): il vicepresidente e la maggioranza dei membri del governo possono inviare una lettera al Congresso accusando formalmente il presidente di non assolvere ai propri doveri. Successivamente, se il presidente non si fa da parte, il Congresso decide che fare con una votazione alla Camera e al Senato. Mike Pence, però, ha rifiutato di ricorrere a questa possibilità. E così i democratici hanno fatto partire la procedura classica di messa in stato d’accusa. L’impressione è che il voto al Senato, al di là di come vada a finire, sia una nuova resa dei conto in seno al Partito Repubblicano, che tra vendette e ripicche cerca di individuare una linea e una leadership per il dopo Trump.

Si temono nuovi scontri

Intanto  il presidente eletto Joe Biden e la sua squadra temono che si possano verificare nuove violenze dopo i fatti del Campidoglio. Si quanto si legge in una dichiarazione di Biden e della sua vice, Kamala Harris, dopo che il presidente eletto ha partecipato ad una riunione con alti funzionari dell’intelligence per discutere di alcuni temi legati alla sicurezza.

 

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