La svolta di Tronchetti e di Marchionne
Nelle quotidiane diatribe politico-finanziarie c’è un aspetto che si dimentica molto facilmente. E non è secondario: tutta la nostra economia si regge sulla produzione. Di beni, non di servizi, giacché questi ultimi diventano fruibili solamente se il sistema economico è in grado di generare redditi. Ad esempio: i servizi di telefonia mobile hanno senso se e solo se c’è un’amplissima domanda che li giustifichi. Senza il commercio di beni prodotti dalle industrie, senza un tessuto industriale una società si riduce al solo soddisfacimento dei bisogni primari, come durante l’epoca feudale.
Questa premessa è d’obbligo perché stiamo per parlare di un tema spinoso e di due protagonisti, spesso invisi al grande pubblico per la loro natura di bastian contrari. L’industria è fondamentale: lo sappiamo ancora meglio dopo che la crisi ha spianato buona parte del tessuto connettivo delle piccole e medie imprese. Una crisi alla quale hanno resistito coloro che sanno esportare e che non si concentrano sul solo mercato interno italiano che, per giunta, l’austerity ha impoverito.
Uno stato di cose riscontrabile nelle ultime trimestrali di Fiat e di Pirelli. La prima ha tenuto i ricavi stabilì grazie a Chrysler-Jeep e dunque all’area americana e asiatica. La seconda ha compensato con le vendite di pneumatici “premium” (i più costosi) in America e di quelli generalisti in Cina il calo del comparto automotive europeo. Con la crisi, infatti, non solo non si comprano auto ma si evita anche cambiare le gomme se non strettamente necessario.
La logica conseguenza di questo trend dovrebbe essere – da un punto di vista strettamente economicistico – lo spostare baracca e burattini laddove la produzione ha il suo mercato. E invece sia Sergio Marchionne che Marco Tronchetti Provera hanno continuato a investire in Italia. Il primo ha avviato lo stabilimento di Grugliasco per produrre le nuove Maserati e il secondo ha riconvertito lo stabilimento di Settimo Torinese per il segmento “premium”.
Qui non parliamo delle polemiche sindacali su piani di investimento più o meno grandiosi né di salotti buoni della finanza, ma della permanenza della grande industria in Italia. Ecco, questi tipi di produzione esistono ancora, ma il nostro Paese non è più mercato, ma solo fabbrica, più o meno come negli anni ’60, Insomma, anche la grande industria ha adottato lo schema vincente di Prada e Ferragamo, che disegnano e fabbricano qui e poi vendono nel resto del mondo.
E questa è una svolta: l’Italia riesce a conservare lo scheletro della propria economia (e soprattutto posti di lavoro), cioè Fiat e Pirelli, ma senza più esserne il mercato numero uno. Senza più esserne il baricentro. In un mercato globale tutto questo non fa specie, ma occorrerà vedere anche se tutto il nostro sistema sociale sia in grado di adattarsi ad essere un consumatore di Panda e di pneumatici non di fascia alta. Ovvero se saprà rinnovare le proprie ambizioni.
Wall & Street