Più di tre milioni di italiani sono disoccupati e le piccole e medie imprese stanno morendo come mosche, schiacciate dalla mano del fisco, mentre sono immobilizzate dalla gelata degli ordini e dalla sostanziale impossibilità di ottenere un prestito da un sistema bancario intossicato da 330 miliardi di crediti deteriorati. Una discarica a cielo aperto per le banche e un cocktail mortale per molte realtà del made in Italy, costrette a varare piani di razionalizzazione. Dopo aver visto le facoltà che offrono maggiori possibilità di trovare un impiego e analizzato quali sono i  dieci lavori più richiesti d’Italia, chiediamo allora a Sergio Carbone, direttore generale Projectland, qual è la strategia migliore per salvare il posto di lavoro quando l’azienda taglia strutture e personale. Nella consapevolezza che, complice il flop della Riforma Fornero, uscire dal mondo del lavoro si rivela sempre più spesso un punto di non ritorno: a luglio i disoccupati erano 370mila in più di un anno prima.

Molti gli italiani che lavorano in una pmi, che cosa dovrebbero fare quando si prospetta una ristrutturazione aziendale?

«Innanzitutto occorre specificare che nella categoria delle pmi rientrano imprese con caratteristiche molto eterogenee in termini di tipologia di attività svolta, numero di dipendenti e fatturato che incidono sulle opportunità di cui può disporre il lavoratore. E’ poi necessario precisare che, in situazioni di crisi, non tutte le PMI possono accedere ai benefici degli ammortizzatori sociali e anche tale aspetto può rivelarsi decisivo rispetto alle prospettive di impiego e reimpiego dei singoli. Analogamente, il tipo di lavoro svolto, operaio o impiegatizio, nonché l’età del lavoratore vanno tenuti in considerazione quando si parla di scelte e opportunità percorribili in occasione di ristrutturazioni. Andando alla questione, il dilemma è duplice: rimanere, attendendo gli esiti della ristrutturazione o andar via? Di norma, chi rimane dovrebbe saperlo già. Le “sorprese” giungono a chi sperava di rimanere ma non si è reso conto o non ha voluto rendersi conto fino alla fine che il suo profilo rientrava tra quelli maggiormente interessati dalla ristrutturazione. A questo punto, le strade possono essere due: cercare un nuovo lavoro o cambiare lavoro. Oggi la ricerca di un’azienda in grado di assumere il lavoratore per lo stesso lavoro che ha appena perso è diventata mission impossible. Può, invece, rivelarsi vincente cambiare lavoro. Di solito, riescono a cambiare lavoro passando, per esempio, dal lavoro dipendente al lavoro autonomo, lavoratori relativamente giovani che in azienda hanno imparato un mestiere che può essere offerto al mercato autonomamente e che dispongono della flessibilità e della motivazione necessarie per intraprendere un percorso del genere. Questo stesso percorso può diventare, invece, più complesso per chi non dispone di una particolare professionalità, è avanti negli anni e può fare, per queste ragioni, più fatica a riconvertirsi. Si può cambiare lavoro anche cercandone uno diverso, magari meno qualificato di quello svolto in precedenza, ma anche in questo caso, motivazione e attitudine al cambiamento giocano un ruolo decisivo».

 

Quanto pesa la flessibilità del singolo, quando una piccola o una media azienda deve scegliere a quali risorse rinunciare?

«La flessibilità conta molto ed è spesso, ma non sempre, legata a fattori anagrafici ed al tipo di lavoro svolto. Il termine flessibilità, peraltro, può ricomprendere varie cose tra loro molto diverse come la disponibilità a riqualificarsi, ad ampliare l’ambito di operatività o a riconvertirsi. E’ chiaro, poi, che occorre che in azienda ci siano gli spazi per la flessibilità. In presenza di esigenze di riconversione tra profili professionali molto distanti tra loro (es. amministrativo vs. commerciale e viceversa), può risultare difficile disporre della flessibilità necessaria per passare da un tipo di lavoro ad un altro in ragione di connotazioni professionali difficilmente superabili, anche se il lavoratore può essere molto motivato a farlo. Un ulteriore limite può essere rappresentato dalle differenze, sul piano retributivo e di status, tra il vecchio e il nuovo lavoro che possono rivelarsi difficili da superare».

 

Con quali criteri inizia a tagliare un imprenditore: eliminando gli stipendi più pesanti o chi è meno produttivo?

«Eviterei di parlare di stipendi pesanti dato che nelle pmi, soprattutto negli ultimi anni, non mi pare sia morto nessuno di “overdose” da reddito. Si, l’attenzione va, a seconda dei casi, alla produttività che occorre intendere anche come capacità di autonomia, di problem solving. Non dimentichiamo, infatti, che l’universo delle pmi è piuttosto ampio e variegato. Per un’azienda che produce infissi in alluminio e dispone di numerosi operai, è certo che l’attenzione andrà verso le risorse in grado di produrre di più e meglio. Viceversa, nel caso di una società impegnata nell’organizzazione di convegni, per esempio, l’attenzione andrà nella direzione di mantenere in organico le risorse che riescono meglio di altre a lavorare in autonomia ed a risolvere tempestivamente i problemi dei clienti».

 

Si salva con maggiore facilità chi interpreta la propria mansione con un approccio “creativo” o le aziende preferiscono chi svolge strettamente il proprio lavoro?

«Anche in questo caso, una distinzione è d’obbligo. Per i lavori ripetitivi, l’approccio “creativo” può anche essere fonte di problemi più che di opportunità per l’azienda. Può invece essere preziosissimo per chi opera in settori come la comunicazione, la consulenza o il marketing dove la capacità di affrontare il lavoro in modo creativo può dimostrarsi una risorsa decisiva».

 

Fino a che punto e in quali casi è ancora possibile rendere più efficiente la struttura piuttosto che tagliarla?

«Sul tema andrebbero sfatati prima di tutto alcuni miti, uno su tutti quello che vede l’imprenditore come un sordido aguzzino pronto a tagliare la testa di chi non lo saluta col sorriso sulle labbra all’ingresso in azienda. D’altro canto, non credo esistano imprenditori contenti di “tagliare” perché gli affari vanno male. In molte PMI, peraltro, soprattutto in quelle storicamente radicate sul territorio, tra datore di lavoro e lavoratore non è insolito si instaurino relazioni che travalicano il rapporto professionale verso relazioni più strette, di tipo amicale, che rendono più complesse e dolorose le ristrutturazioni. Spazi di efficienza per mantenere inalterata la struttura si possono sempre trovare ma non si tratta di misure che possono essere reiterate all’infinito. Data una struttura aziendale e determinate condizioni di mercato, se dopo cinque anni di flessione del fatturato e dei margini ho, nell’ordine: cambiato sede, rinegoziato i contratti di fornitura, reingegnerizzato i processi, compresso i miei compensi, dovrò fare i conti col fatto che di alternative ai licenziamenti me ne saranno rimaste davvero poche».

 

I direttori finanziari o comunque l’imprenditore stesso hanno leve su cui agire anche a livello di bilancio, quando è preferibile ridurre le spese correnti per salvare una risorsa?

«Quando parliamo di direttori finanziari, facciamo già riferimento alla fascia alta delle pmi. Nei contesti aziendali di dimensioni minori, questa figura si identifica con l’imprenditore che è quello che segue anche da vicino l’andamento dei conti. Il controllo e la riduzione delle spese correnti, per un’azienda che compete tutti i giorni, credo siano misure imprescindibili che esulano da specifiche situazioni di crisi. Certo è che se al taglio delle spese correnti si preferisce il taglio del personale è perché si ritiene che la struttura sia sovradimensionata. Non di certo per volontà del sordido aguzzino di prima!»

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