La settimana che inizia oggi sarà decisiva per le sorti del Jobs Act, da circa un mese impantanato al Senato. La proposta-choc di abolire l’articolo 18, ossia l’obbligo di reintegra per i licenziamenti senza giusta causa, è rimasta, per ora, solo uno slogan. Fatti salvi dall’inizio i licenziamenti discriminatori, i senatori sono riusciti a far ricomprendere anche quelli disciplinari, praticamente senza cambiar nulla rispetto alla riforma Fornero. Ne abbiamo parlato con Marco Marazza, docente di Diritto del lavoro e delle Relazioni industriali presso l’Università Luiss-Guido Carli di Roma. Lo scenario da lui descritto è poco confortante: senza modifiche, il Jobs Act non produrrà nessun cambiamento epocale. Il sussidio di disoccupazione universale per accompagnare i lavoratori licenziati al reinserimento sembra un miraggio e, senza tagliare le unghie alle prerogative delle Regioni, anche la formazione centralizzata potrebbe rivelarsi inefficace. In tutto questo resta dimenticato il ruolo fondamentale dell’apprendistato.

 

L’introduzione della possibilità di licenziamento senza giusta causa con indennizzo economico contenuta nel ddl delega sul Lavoro può aumentare le possibilità di occupazione in un Paese come l’Italia che si avvia verso un tasso di disoccupazione del 12,5 per cento, secondo le stime contenute nella Nota di aggiornamento del DEF?

«Bisogna fare una premessa. Nel Jobs Act ancora manca una proposta completa e dettagliata e all’interno della maggioranza di governo la trattativa è ancora molto aperta. Ad oggi sembra che l’indennizzo economico  sostituirà la reintegrazione per i nuovi assunti, ma non si sa se per tutta la durata del contratto o solo per gli anni iniziali. Non è secondario, poi, sapere di che cifre si parla. La mia impressione è che una riforma così strutturata aumenta il dualismo del nostro mercato del lavoro ed è destinata a produrre qualche effetto solo nel medio lungo periodo. È possibile che ci sia un incremento di occupazione. Ma se la sanzione economica dovesse operare solo per i primi anni di contratto, temo che la situazione non cambierebbe molto rispetto ad oggi, visto che le imprese per tre anni possono ingaggiare un lavoratore con contratti a tempo determinato molto flessibili».

La flessibilità è una condizione sufficiente per aumentare gli investimenti diretti esteri?

«La flessibilità è una condizione importante ma non sufficiente. Più di ogni altra cosa gli investitori esteri chiedono di poter contare sulla certezza delle regole applicabili al rapporto di lavoro, che poi vuol dire anche certezza del costo del lavoro. Oggi, purtroppo, questa certezza manca. Gli esempi da fare sarebbero innumerevoli. In materia di licenziamenti, la magistratura ha una discrezionalità eccessiva nel disporre la reintegrazione o l’indennizzo. In materia di cassa integrazione, l’accesso agli ammortizzatori sociali è sottoposto ad una elevata discrezionalità dell’amministrazione. Nelle relazioni industriali, poi, ancora non si capisce cosa succede quando un contratto collettivo è sottoscritto solo da alcuni sindacati e contrastato da altri».

Gli oppositori della riforma sostengono che l’abolizione dell’articolo 18 per le imprese con più di 15 dipendenti non sia dirimente e che contribuisca solo a diminuire le tutele. È veramente così?

«La rivisitazione dell’articolo 18 certamente diminuisce le tutele. Il problema è che nel definire il livello di protezione dei lavoratori non possiamo fare a meno di confrontarci con i sistemi dei Paesi europei più evoluti e lì la reintegrazione resta una sanzione applicabile solo in casi marginali, quando il licenziamento è gravemente viziato perché, ad esempio, discriminatorio. Il punto è che l’abolizione dell’articolo 18 può solo essere un tassello, certamente doloroso, ma importante, di una riforma che deve contemporaneamente dare strumenti di incremento del reddito, speranze di rioccupazione, qualità della formazione».

I giuslavoristi che negli anni hanno ipotizzato riforme del diritto del lavoro hanno sempre messo l’accento sull’indennità di disoccupazione. Un sistema universale che garantisca per un periodo determinato la maggior parte del reddito eventualmente perduto (in Danimarca si ottiene il 90% per 4 anni) è sostenibile visti il costo elevato (superiore ai 5 miliardi di euro) e la scarsità di risorse disponibili (l’Aspi introdotta dal Ddl Fornero si ferma a 1,5 miliardi circa)? 

«Tutti vorremmo assicurare a chi perde il posto di lavoro un sistema di protezione universale ed economicamente consistente. Poi bisogna fare i conti con la realtà delle risorse disponibili e sinceramente non so dire, esattamente, che tipo di tutele oggi ci possiamo permettere. Ciò che mi è chiaro è che questo sistema di protezione non può essere posto sulle spalle delle imprese. Quando Pietro Ichino qualche anno fa avanzò la proposta del contratto unico, che poi non è molto diversa da quella del contratto a tutele crescenti di cui si parla ora,  ipotizzò un nuovo rapporto di lavoro dal quale il datore di lavoro poteva liberamente recedere pagando al dipendente una cifra importante, a prescindere dalla legittimità o meno del licenziamento. Una somma che si aggiungeva al preavviso ed al trattamento di fine rapporto. Furono gli stessi imprenditori a giudicare impraticabile questa soluzione. Preferivano tenersi l’articolo 18».

Il cosiddetto Jobs Act sancisce anche la possibilità di demansionare il lavoratore assegnandogli una qualifica e un salario inferiore in base alle esigenze organizzative. Qual è la sua opinione in merito?

«Penso che una maggiore flessibilità nella modificazione delle mansioni del lavoratore sia fondamentale. Si tratta di una delle tante forme di flessibilità del rapporto di lavoro di cui si parla sempre troppo poco. Disgraziatamente si finisce sempre per focalizzare l’attenzione sulla flessibilità in entrata ed in uscita ma il recupero di efficienza del sistema produttivo è strettamente correlato alla flessibilità dell’organizzazione del lavoro: mansioni, orario di lavoro, controlli. In Spagna dopo le ultime riforme il datore di lavoro può assegnare il lavoratore anche a mansioni inferiori, quando ciò è richiesto da esigenze di competitività dell’impresa. Penso sia uno strumento da approfondire e adattare alle peculiarità del nostro sistema. Ma già sarebbe molto allargare la fungibilità delle mansioni ed abolire quella norma, già superata dalla giurisprudenza, che vieta al lavoratore e datore di lavoro di accordarsi, semmai con l’assistenza del sindacato, per l’assegnazione a mansioni inferiori».

Il piano del governo Renzi prevede, inoltre, la creazione di un’Agenzia Nazionale per il Lavoro che si occupi di formazione, reinserimento e matching tra domanda e offerta. È favorevole oppure sarebbe meglio lasciare spazio alla libera impresa?

«Sono molto favorevole, ma dipende da come si pensa di fare funzionare questa Agenzia. La proposta di Renzi si ispira all’Agenzia Federale del Lavoro Tedesca che opera tramite direzioni regionali ma ha un coordinamento centrale. Per fare una cosa simile anche la nostra Agenzia dovrebbe essere dotata di un organo centrale di coordinamento e ciò impone che sia ben chiarito il riparto di competenze tra Stato e Regioni in materia di politiche del lavoro. Temo che se non va avanti la riforma dell’articolo 117 della Costituzione (che regola la potestà legislativa concorrente delle Regioni su un ampio spettro di materie; ndr) sia molto difficile che questa Agenzia possa funzionare. In ogni caso l’Agenzia per il lavoro, che come noto disporrebbe di un’organizzazione molto più piccola di quella tedesca, dovrebbe essere supportata. Un ruolo centrale lo potrebbero avere le Camere di Commercio, soprattutto per l’incontro tra domanda e offerta ed il raccordo scuola lavoro. Ma anche i privati possono giocare un ruolo fondamentale».

Secondo lei, sarebbe utile rilanciare l’apprendistato, ultimamente penalizzato dal legislatore?

«Sembra una battaglia persa. Il contratto di lavoro più economico di tutti, perché supportato da forti sgravi contributivi, continua ad essere del tutto marginale per via di due fattori determinanti: la farraginosità di un sistema che affida alle Regioni la competenza a legiferare in materia di formazione ed un assurdo livello di burocrazia che impone ad un imprenditore di assumere uno stuolo di consulenti per fare un contratto di apprendistato. Fin quando non si risolve il problema del riparto di competenze tra Stato e Regioni credo che la cosa migliore sia quella di sostituirlo con un più flessibile contratto di inserimento che preveda una formazione on the job erogata direttamente nei luoghi di lavoro. L’apprendistato classico dovrebbe rimanere lo strumento di raccordo tra scuola e lavoro per l’assunzione di giovani studenti delle scuole superiori o di studiosi universitari. Ma per funzionare dovrebbe essere completamente rivisitato. Credo che in tutta Italia gli studenti che hanno firmato un contratto di apprendistato si contino nell’ordine di qualche centinaia».

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