Le piccole e medie imprese italiane, che rappresentano da sempre la spina industriale del nostro Paese ,  hanno davanti a loro la grande sfida del consolidamento: sovente la sola via per riuscire competere nel mercato dopo la crisi, esportando il brand del made in Italy nei mercati emergenti e andando a cercare ricavi nelle economie dove la ripresa è già in atto, ma anche un passaggio difficilissimo per aziende ad alto tasso famigliare come quelle italiche. Chiediamo a Fabiano Schivardi, titolare della cattedra in  Entrepreneurship alla Bocconi di Milano,  come si può superare questo ostacolo e valorizzare il «genio italico».



Professor Schivardi,  che cosa deve sapere un giovane per creare una impresa in grado di resistere sul mercato?

«Non esiste una ricetta per la sopravvivenza. Anzi, l’evidenza ci dice che circa la metà delle nuove imprese lascia il mercato entro cinque anni dalla nascita. Quindi la prima cosa da sapere è che il fallimento è parte del processo imprenditoriale e va messo in conto. Ciò detto, tutto dipende dal tipo di attività che si vuol creare. Un conto è aprire un ristorante, un  altro un’impresa innovativa che vuole competere sui mercati internazionali».

Lo spirito imprenditoriale si può imparare?

«Forse lo spirito no, ma sicuramente la pratica ha una componente apprendibile molto importante. Fare l’imprenditore richiede un mix composito di capacità: visione, creatività, sopportazione del rischio, leadership, capacità organizzative. Alcune caratteristiche possono avere una forte componente innata, ma altre, penso in particolare alle capacità organizzative e alla leadership, si possono in gran parte imparare».

L’Italia è allineata al resto d’Europa in termini di percentuale di imprese a controllo familiare (85,6%, con la Francia all’80% e la Germania all’89,8%) e rimane allineata quanto meno alla Germania in termini di percentuale di imprese familiari con amministratore delegato familiare (83,9% l’Italia, 84,5% la Germania), ma si caratterizza per una quota senza uguali di imprese in cui l’intero gruppo dirigente è di estrazione familiare (66,3%, con la Spagna al 35,5% e la Germania al 28%). Questa «famigliarità» è un disvalore se l’azienda deve affrontare il mercato globale?

«La “famigliarità” rappresenta in generale un valore. Gli imprenditori familiari hanno un attaccamento alla loro impresa e ai dipendenti che altre forme proprietarie non hanno. Allo stesso tempo, la “famigliarità” diventa un disvalore quando l’imprenditore organizza l’impresa unicamente attorno alla famiglia. Oggi servono competenze e attitudini che non necessariamente si trovano nel ristretto ambito familiare. Limitarsi a questo ambito nella ricerca delle figure chiave nell’impresa significa precludersi percorsi di sviluppo che oggi, più che nel passato recente, sono una scelta quasi obbligatoria».

Se l’attitudine imprenditoriale ha una dose di ereditarietà in quanto chi è circondato da imprenditori, come il figlio di un imprenditore, in teoria dovrebbe esserne avvantaggiato, perché allora non si è verificata una crescita delle imprese al di là degli effetti negativi e ciclici della crisi?

«Perché è cambiato il mondo attorno a noi. Fino a vent’anni fa i nostri giovani potevano apprendere i “segreti” dell’imprenditorialità da altri imprenditori, tipicamente lavorando per qualche anno in una o più piccole imprese. In questo modo si apprende come organizzare in modo efficiente la produzione. Ma oggi ciò non basta più. Contenere i costi non è più sufficiente, data la competizione dei paesi a basso costo del lavoro. Servono competenze dal lato dell’innovazione, del marketing, della distribuzione eccetera. Lo scenario competitivo è diventato più complesso e quindi sono cambiate le competenze richieste per essere imprenditori. Imparare “in fabbrica” è ancora un punto di partenza fondamentale, ma non più sufficiente da solo. L’istruzione universitaria, particolarmente in materie tecniche ed economico/aziendali, è diventata più importante».

Perché sono così difficili i passaggi generazionali nelle piccole e medie imprese?

«Perché la struttura familiare riflette, in ambito aziendale, tutte le problematiche che si hanno nella famiglia. Spesso poi i figli e le figlie del fondatore hanno capacità o interessi diversi, e quindi non sono le figure più adatte per proseguire nella gestione dell’impresa. Di nuovo, costringersi al ristretto cerchio famigliare può diventare un abbraccio che soffoca l’impresa».

L’Italia è storicamente specializzata in tipi di produzione che risentono della concorrenza di Paesi in grado di poter sfruttare un minor costo del lavoro. La Cattedra di entrepreneurship come può aiutare a sviluppare competenze aggiuntive in grado di colmare il gap competitivo?

«Intendo muovermi lungo due direzioni. La prima riguarda l’insegnamento, offrendo corsi ad aspiranti imprenditori che li aiutino a sviluppare le competenze necessarie per affrontare le sfide imprenditoriali. La secondo riguarda lo studio delle imprese italiane, per approfondire la nostra conoscenza delle cause del ristagno della produttività registrato negli ultimi vent’anni ed essere in grado di formulare proposte di politica economica che aiutino il rilancio del nostro sistema produttivo».

 O forse la mancata crescita delle aziende famigliari è da collegarsi alla naturale diffidenza verso strumenti di finanziamento alternativi come private equity e venture capital (per non parlare della quotazione in Borsa)?

«Sicuramente questa è una delle cause, legata alla riluttanza ad aprire il capitale dell’impresa a soggetti esterni. Ma i nostri imprenditori devono capire che questi operatori finanziari offrono non sono capitali di rischio, oggi importanti per affrontare i percorsi di crescita, ma anche l’accesso a un network di competenze molto utili per lo sviluppo dell’impresa».

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