«Google non costruisce Ferrari»
No, non mandateci subito a quel paese per questa ovvietà! Abbiamo scelto un titolo lapalissiano e un’immagine della splendida 488 GTB, presentata pochi giorni fa al Salone di Ginevra, per ribadire un concetto che la società contemporanea sta progressivamente dimenticando: la padronanza dei nuovi media, la capacità di sfruttare le connessioni social e una mentalità 2.0 non rendono l’individuo automaticamente innovatore. Il gioiello che vedete qui sopra non si produce con Google o con Twitter: lo costruiscono operai superspecializzati (un tempo Maranello cercava gli addetti al tornio con il lanternino e la Ferrari si è costruita un istituto tecnico praticamente in casa per questo motivo) basandosi sui disegni di ingegneri e progettisti. È l’oggetto più «made in Italy» che ci sia, ma non si costruisce con le chiacchiere, bensì con il lavoro. Le tecnologie informatiche hanno reso meno duro il processo di ingegnerizzazione e quello produttivo, ma l’innovazione della Ferrari è nella creatività di coloro che cercano di mantenere intatto lo spirito di patron Enzo.
È un discorso complesso sul quale torneremo sicuramente in futuro. In estrema sintesi, possiamo dire che in un’epoca in cui molti si riempiono la bocca con parole tipo «creatività» e «innovazione» occorre sempre guardarsi dietro alla vecchia distinzione fra «prodotti» e «servizi». I primi (nei quali possiamo catalogare i derivati dell’industria e dell’agricoltura) sono il vero motore dell’economia. I secondi sono funzionali ai primi: senza produzione non ci sono servizi. Le economie fondate esclusivamente sui servizi sono destinate a fallire: la Grecia ne è un triste esempio. Google, Facebook e Twitter non sarebbero quello che sono oggi senza il loro contesto originario, cioè un grande Paese produttore come gli Stati Uniti. Noi italiani tendiamo spesso a dimenticare questa realtà, quasi come se innovare fosse un valore di per sé che rende tutto il resto trascurabile.
Ultimo ma non meno importante è il fatto che la tecnologia restituisca molto spesso risultati predeterminati, seriali, prevedibili e che solo l’ingegno, la preparazione e la conoscenza possono fare la differenza. Ecco perché siamo tornati a parlare di questi argomenti con Giulio Ceppi, architetto fondatore di Total Tool, società di visioning e design strategy
Quanto la comunicazione è parte importante in un processo di innovazione?
«Moltissimo. Forse, paradossalmente, ancora non abbiamo chiaro quanto un processo innovativo non solo raggiunge obiettivi prima ignoti o impossibili, ma nel farlo genera quasi necessariamente nuovi strumenti e spesso necessita di forme inedite di comunicazione e rappresentazione. Come dire che non si dà innovazione a volte, se non sono le pratiche stesse, i mezzi e le rappresentazione dell’innovazione il primo oggetto del cambiamento stesso».
Quanto i nuovi media, oggi a disposizione e a portata di tutti sono motore, di innovazione?
«Gli strumenti sono mezzi e pratiche che ereditiamo dal passato, che sia una matita, un computer, un motore di ricerca o un sistema di simulazione immersiva: tuttavia non è certo schizzando a caso dei segni su un foglio, tanto come googolando a caso nella rete, che si inventa qualcosa di nuovo. Occorrono grande coraggio e provocazione, piuttosto che estrema perizia e virtuosismo, per fare qualcosa di nuovo: la matita data in mano a Leonardo o Picasso fa cose meravigliose. Ma se chiedo ai miei studenti di fare una ricerca su qualsiasi argomento con Google, spesso vedo che tra 50 elaborati almeno 10 riportano oramai le stesse immagini e argomentazioni: sono coloro che si fermano alle prime pagine di Google, strumento potentissimo ed eccezionale, ma usato in modo banale e dilettantistico. Come la famosa Ferrari impiegata per andare al bar e non per girare in pista (cosa più che lecita, si intenda…) o la matita di Picasso messa però in mano mia, che non genera certo gli stessi effetti che produceva in mano al maestro del Cubismo».
Allora la persona fa la differenza? Lì risiede lo strumento?
«Esatto. Questo solo per chiarire che non è certo la potenza del mezzo a definire il risultato, ma l’uso originale che se ne fa, piuttosto che la capacità di reinventare il tutto per nuove strade, generando nuovi strumenti, destinati poi a loro volta a essere superati».
Quanto conta allora essere aggiornati, sapersi costruire gli strumenti della comunicazione?
«Michael Foucalt sosteneva, attraverso una bellissima metafora, che ognuno di noi possiede intellettualmente una propria cassetta degli attrezzi ed ogni volta che apprende qualcosa di nuovo, modifica il senso ed il valore degli attrezzi precedentemente noti: noi stessi siamo in continua evoluzione strumentale, combinando strumenti tra loro e acquisendo mezzi sempre più specialistici. Noi italiani siamo stati maestri in questi cambiamenti, e non avremmo aziende come Alessi, Artemide, Eataly, Olivetti, Piaggio… e la stessa Ferrari se non fosse stato così. Stessa cosa vale per le modalità in cui l’innovazione si racconta: la comunicazione può essere innovativa, ma spesso l’innovazione richiede di per sé una diversa comunicazione. Non sarebbero esistite United Colors of Benetton, B&B, Fiorucci….se il loro modo di raccontare l’innovazione non fosse stato diverso».
Quanto il design a suo avviso vanta propri strumenti originali di comunicazione?
«A ben pensarci il design, disciplina che dovrebbe occuparsi di innovazione tout court e che vanta ben meno anni di storia se comparata alla pittura o all’architettura che hanno secoli di tradizione alle spalle, non ha paradossalmente un modo suo, originale di raccontarsi e di interloquire».
Ma qualche esempio che l’abbia coinvolta personalmente?
«Recentemente ho creato un evento denominato (S)Viste di Lecco: 9 brevi storie di fallimenti progettuali. Un fuori programma rispetto alle classiche mostre d’arte della Galleria Melesi che l’ha ospitato: una profonda quanto originale riflessione su quali possano essere le proposte future per il territorio di Lecco. Come produrre infatti visioni capaci di mobilitare gli abitanti di una città per definirne i propri possibili scenari a venire? Giocata sul titolo e sul rigoroso formato grafico della cartolina (la più tradizionale e standardizzata visione di un territorio…) la mostra ha proposto ironicamente 9 (S)viste: ovvero progetti di pubblica utilità pensati per “ridisegnare” il concetto di città e di territorio, rigenerarne le potenziali relazioni e stimolarne il necessario rinnovamento, ma che tuttavia ad oggi non hanno avuto, per varie ragioni, la fortuna attesa, restando quindi incompiuti o fraintesi».
Quindi la sua tesi è che dagli errori si può imparare? Che un errore è tale solo rispetto ad un dato tempo?
«Certamente. Lecco ha infatti un potenziale inespresso nel virtuoso equilibrio tra “bellezza paesaggistica” e “breve distanza da Milano”, fonte di grandi opportunità per immaginare nuove capacità attrattive ed offrire qualità di vita, facilitazioni abitative, aggregazione sociale e attività ricreative e culturali: il compito del progetto è anche stimolare il dibattito e animare le amministrazioni a “vedere diversamente” e a trovare nuovi orizzonti condivisi con la cittadinanza. Non solo risolvere (forse) problemi, ma anche formulare domande. Progetto aperto, partecipato, in (S)viste si era invitati a prenderne parte distribuendo viralmente cartoline per la città, oltre ad impiegare una cartolina bianca, vergine: uno spazio vuoto dove proporre le proprie visioni, le proprie idee, i propri desideri per una città migliore. Quale miglior strumento del foglio bianco, in fondo?».
Wall & Street