>ANSA-CRONOLOGIA/2014: POLITICA; Il Cdm di Natale completa il Jobs Act

 

Siamo alle solite! Le elezioni regionali si avvicinano ed è il momento giusto per fare promesse che possano convincere gli elettori a scegliere un partito piuttosto che un altro. Naturalmente, chi ha qualcosa da perdere (ma soprattutto da guadagnare) è l’attuale compagine di governo, cioè il Partito Democratico del premier-segretario Matteo Renzi e i suoi «satelliti» della maggioranza. E, considerata la composizione demografica del Paese, c’è qualcuno da convincere a recarsi alle urne: i pensionandi che vorrebbero anticipare di qualche anno l’uscita dal mondo del lavoro, procrastinata dalla «devastante» (lo mettiamo fra virgolette, perché si tratta di considerazioni elaborate dai detrattori del prolungamento della carriera lavorativa) riforma Fornero.

Poletti«Adesso dobbiamo lavorare all’introduzione di elementi di flessibilità in uscita a partire dalle condizioni socialmente più difficili», ha dichiarato qualche settimana fa il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, poi ritrattando parzialmente le promesse e garantendo che se ne parlerà in occasione della prossima Legge di Stabilità. In ogni caso, nei prossimi giorni i sindacati nazionali saranno convocati al ministero per discutere della benedetta flessibilità. Che cosa significa? Sostanzialmente, avere una possibilità di scelta: perdere una quota del totale accumulato e ritirarsi in anticipo rispetto ai 65 anni previsti per tutti, nel caso lo si desideri. Belle parole, non c’è che dire. Se volessimo fare i commentatori politici, potremmo sintetizzare: «Continuate a firmare una cambiale in bianco al governo e molto probabilmente sarete accontentati con qualche anno di anticipo sull’età di pensionamento. A vostre spese!».  O, al limite, chiedendo alle aziende (nel caso dei lavoratori privati) di coprire il differenziale di trattamento all’uscita del dipendente dal ciclo produttivo. Non chiediamoci se questo progetto sia fattibile (tutto si può fare), domandiamoci piuttosto se l’Unione Europea consentirebbe all’Italia di aumentare la spesa previdenziale attesa nei prossimi anni (se più gente va in pensione, l’Inps deve inizialmente pagare di più) anche se, nel lungo periodo, il costo delle singole prestazioni potrebbe diminuire. Un «marameo» di Bruxelles sarebbe un gesto cortese, vista la situazione drammatica dei nostri conti pubblici. Anzi, dovremmo persino ringraziare se la Commissione Ue non ci chiederà di tagliare le erogazioni già in essere, come invece ha fatto nei Paesi (come la Grecia e il Portogallo) sottoposti a stretto monitoraggio. E tra i quali qualcuno a Berlino immagina prima o poi di collocarci.

Aldo Urbini (Cisal)Ma guardiamo più da vicino cosa sono veramente le nostre pensioni e cosa accade quando versiamo i contributi all’Inps (o a un altro ente previdenziale nel caso di ordini professionali et similia). Ci facciamo aiutare da Aldo Urbini, direttore del Centro Studi della Cisal (sindacato autonomo, come si dice di ogni organizzazione che non abbia referenti politici, a differenza di Cgil, Cisl, Uil e Ugl). «Come Cisal – osserva Urbini – abbiamo lanciato una provocazione, ricordando un dato di fatto che a molti sfugge: l’attuale previdenza obbligatoria poggia su un discuti­bile “mix” che vede coesistere una modalità di calcolo di tipo contributivo con un sistema di finanziamento a ripartizione. Ciò significa che i contributi versati dai lavoratori non ven­gono capitalizzati al fine dell’erogazione della futura pen­sione, bensì utilizzati, nel momento stesso in cui vengono riscossi, per pagare le pensioni attualmente in essere».

In pratica, rileva Urbini, nel momento stesso in cui il lavoratore (anzi per meglio dire, il datore di lavoro nel caso dei dipendenti) versa i contributi all’Inps, essi vengono immediatamente spesi per pagare sia le pensioni in essere sia per garantire prestazioni sociali come la cassa integrazione. «Oltretutto – aggiunge – il rendimento dei contributi previdenziali è predeterminato e tutto l’eventuale surplus rispetto al minimo garantito viene immediatamente girato al Tesoro». La riforma Dini del 1995 (che sancì il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo) era stata congegnata dall’economista premio Nobel Franco Modigliani, sottolinea il direttore del Centro Studi Cisal, per un veloce passaggio al sistema a capitalizzazione.

Circostanza che, invece, non si è mai verificata. In primo luogo per motivi demografici: il progressivo invecchiamento della popolazione ha reso sempre più necessario l’utilizzo dei contributi previdenziali per il pagamento delle pensioni. «La crisi globale – argomenta – ha peggiorato la situazione: il Fondo Pensione dei Dipendenti presso l’Inps è andato in rosso perché la disoccupazione crescente ha diminuito il numero dei contributori». Inoltre, «la persi­stente confusione tra previdenza ed assistenza» rende impossibile attuare «una for­ma di investimento che faccia fruttare i contributi versati».

Totoministri nel vivo, arrembaggio a squadra Renzi

Allo stesso modo, non promettono nulla di buono le intenzioni del nuovo superpresidente Inps, l’economista Tito Boeri, che è diventato il Renzi-man in materia previdenziale. Boeri è favorevole alla flessibilità del pensionamento, ma vuole estendere, ovviamente in stretto collegamento con Palazzo Chigi e con Via XX Settembre, il controllo governativo su tutti i delicati passaggi che riguardano le politiche previdenziali. Il metodo Renzi, lo dimostrano sia la storia del premier sia i recenti avvenimenti riguardanti Telecom, è super-dirigista. E se, invece, provassimo a ragionare in un’ottica completamen­te diversa, rispettando il diritto di proprietà dei lavoratori sui contributi? Quello che ne risulterebbe è un sistema che, fermi re­stando i prelievi obbligatori minimi, tali da garantire l’assistenza e un trattamento minimo universale, lasciasse la maggior parte dell’attuale 33% della retribu­zione nella busta paga del lavoratore, il quale ne avrebbe la piena disponibilità per decidere autonomamente come e in quali termini investirla. «Una quota ragionevole potrebbe essere il 20 per cento», conclude Urbini.

È la proposta più liberale che sia stata mai portata avanti da un sindacato. Ed è per questo che la Cisal è un po’ sola nel sostenerla, in quanto le confederazioni maggiori giocano di sponda con il governo di turno per ottenerne legittimazione e trascurando quello che dovrebbe essere il vero obiettivo. Un’altra nota a margine la possiamo aggiungere noi: né la politica né il sindacato sono favorevoli a considerare il lavoratore, l’individuo come un soggetto libero che, responsabilmente, è in grado di utilizzare il proprio denaro per costruirsi una pensione, aumentando o diminuendo i versamenti a seconda di esigenze e necessità.

Cavallaro - Cisal«Nel campo della previdenza, bisogna eliminare ogni odiosa discriminazione, soprattutto fiscale, tra fondi complementari pubblici e privati»ha dichiarato il segretario generale della Cisal, Francesco Cavallaro, in occasione del convegno «Una nuova politica economica per il benessere del Paese», svoltosi qualche giorno fa a Roma. «Bisogna rendere effettiva la separazione tra assistenza e previdenza per una gestione davvero trasparente dei contributi, quale “salario differito” di esclusiva proprietà dei lavoratori», ha aggiunto. Volete una prova? Basta guardare alla previdenza integrativa. Nel 2014, ha rilevato la Covip (Commissione di Vigilanza sui Fondi pensione),  gli investimenti nei fondi pensione negoziali e nei fondi aperti hanno reso in media, rispettivamente, il 7,3% e il 7,5% a fronte dell’1,3% di rivalutazione del Tfr lasciato in azienda o all’Inps. Sarà banale, ma chi fa da sé fa per tre. Anche nella previdenza.

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