Lavoro 03

Il calo del tasso di disoccupazione registrato dall’Istat nel mese di aprile non è ragione sufficiente per non continuare a denunciare le storture del sistema-Italia. Il Jobs Act non ha risolto tutti i problemi e Wall & Street ve lo ripetono da tempo, ma c’è anche un altro aspetto da analizzare, oltre alle carenze endemiche dei processi formativi e delle strutture finalizzate a far incontrare domanda e offerta di lavoro. Si tratta della rigidità delle mansioni nelle aziende: spostare un impiegato da una funzione a un’altra è sempre molto complesso, nonostante la nuova legislazione varata dal governo Renzi (con tutti i suoi limiti) . Ecco perché abbiamo chiesto ad Angelo Pasquarella, amministratore delegato di Projectland ed esperto di sociologia del lavoro, di spiegarci quali siano i principali ostacoli alla flessibilità.

Pasquarella«Il danno derivante dal rigido meccanismo di mansione non consiste tanto nel fatto che non si possano fare quelle cose che sono funzionali ad un miglior assetto dell’impresa e che quindi l’azienda rimanga ingessata e meno competitiva. Certo può capitare anche questo, ma non vi è dubbio che l’azienda si adopererà per fare le cose che vanno fatte e quindi per adeguarsi alle necessità emergenti dal mercato. Il problema è piuttosto quello dei costi conseguenti ai sistemi basati sulla rigidità delle mansioni. In particolare sono i costi di transazione (interni o esterni) che possono rivelarsi particolarmente onerosi per l’impresa che, a questo punto, deve essere considerata nel suo insieme. Questi costi sono presenti sia quando le mansioni sono svolte all’interno che all’esterno dell’azienda e hanno rilevanza sia quando si abbia la necessità di destinare parte del personale a mansioni considerate inferiori sia quando l’esigenza sia opposta».

«Le aziende che sopravvivono nel tempo si basano sulla flessibilità tipica degli organismi che si adattano a situazioni mutevoli. Certo se il mutamento è troppo repentino può darsi che l’organismo non sopravviva, ma se avviene in modo graduale è possibile che possa riconfigurarsi in funzione dei requisiti previsti dalla nuova situazione. Come per gli organismi, l’azienda ideale è quella che ha all’interno del suo DNA (e quindi nella cultura dei dipendenti) la capacità di cambiare rapidamente e, come primo obiettivo, la volontà di sopravvivere, modificando il proprio assetto in base ai prodotti, ai servizi, alle caratteristiche richieste da un mercato divenuto mutevole e più esigente. Il terrore del demansionamento, spesso espresso dal sindacato, è peraltro, in questo contesto, del tutto ingiustificato. Basta rispondere a qualche semplice domanda: nel futuro prevediamo che servano più lavori qualificati o più lavori dequalificati? Prevediamo di avere necessità di maggiori o di minori conoscenze? Prevediamo di vendere prodotti che chiunque nel mondo sia in grado di produrre o prevediamo il contrario? La risposta a queste domande ci fa comprendere come il problema in prospettiva sia esattamente opposto: quello di avere all’interno dell’impresa un “quoziente intellettuale” più elevato, gente più preparata e quindi più creativa e produttiva».

«Semmai, invece che di demansionamenti, dovremmo parlare di piani formativi, di formazione continua, di sviluppo professionale e personale delle persone che vi lavorano. I demansionamenti, che pure ci sono, riguardano un altro aspetto derivato dallo sviluppo dei meccanismi informativi che hanno di fatto portato ad un appiattimento dei livelli gerarchici aziendali. Oggi un amministratore delegato può raggiungere con una e-mail tutti i suoi dipendenti collocati in ogni parte del mondo. Molte figure, un tempo centrali per il passaggio delle informazioni tra vertici e operatività, appaiono ormai pletoriche ed eccessivamente retribuite. Parallelamente lavori a basso valore aggiunto subiscono la “concorrenza” degli outsourcer in grado di fornire gli stessi servizi a costi enormemente minori e l’impresa deve dare una risposta a questi fenomeni proprio per sopravvivere».

«Il punto, ancora una volta, non è quello della difesa ad oltranza della posizione acquisita dal lavoratore. Nel dopoguerra eravamo convinti che la stabilità degli assetti aziendali sarebbe durata decenni, che i prodotti sarebbero forse cambiati, ma non si sarebbero modificati radicalmente come avviene oggi, che la concorrenza era tra Fiat e Autobianchi e non con i coreani, che la meccanica la facevano i tedeschi gli italiani e gli americani e che forse questo sarebbe durato per sempre. Chi l’avrebbe detto che ogni azienda per sopravvivere doveva assomigliare a quei coltelli svizzeri in grado di contenere dall’apriscatole al punteruolo o al cavatappi? Le nostre aziende debbono avere la possibilità di trasformarsi in poco tempo da cavatappi ad apriscatole con la sola differenza che, quando cambiano, cambia l’intero assetto tutto insieme, come nei cartoni animati, diventano qualcosa d’altro. Mi potete spiegare cosa centrano i mansionari in questa realtà economica?»

Wall & Street

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