Quella «pirlata» del Pir
La legge di Bilancio 2017 ha lanciato i Pir, ossia i piani individuali di risparmio, che consentono alle famiglie di diversificare i propri investimenti puntando sulle pmi italiane e beneficiando dell’esenzione dall’imposta sui capital gain per chi conserva questi strumenti finanziari (equiparabili a quote di fondi) almeno 5 anni. Lo scopo è fornire un canale alternativo di finanziamento rispetto al debito bancario alle piccole e medie imprese sane e con prospettive di sviluppo convogliando verso di esse una parte dell’ingente quota di risparmio delle famiglie italiane. L’obiettivo è convogliare verso questo target 18 miliardi di euro di nuovi investimenti nei prossimi 4 anni (circa il 25% di quanto ogni anno gli italiani mettono da parte oppure investono). L’importo annuo massimo che si può investire nei Pir è di 30mila euro, per 5 anni e per un massimo monetario complessivo di 150mila euro. La legge si riferisce a investimenti in azioni o obbligazioni emesse da società italiane anche di piccole-medie dimensioni e anche da imprese estere che abbiano però una stabile organizzazione in Italia.
«Una volta che il risparmiatore-investitore giunga alla consapevolezza di voler investire su titoli di emissione diretta, avrà una scarsa convenienza per l’investimento in azioni e nessuna convenienza per l’investimento in obbligazioni», sottolinea Fabio Accinelli, specialista di diritto finanziario e dei mercati internazionali, evidenziando che «in caso di azioni (con un ipotetico rendimento medio del 5% annuo) il risparmio fiscale si fisserà all’1,30% (il 26% del 5%), importo esattamente commisurabile alle commissioni di gestione annua dei Pir, variabile tra l’1,20% e l’1,35%».
Sarebbe semplicistico pensare ad un risparmiatore che possa gestire, senza alcuna competenza ma pur potendolo fare, l’acquisto/gestione di un Pir direttamente da un proprio deposito titoli. Premesso ciò, aggiunge Accinelli, ipotizzando un rendimento azionario del 5% l’investitore si troverà a dover decidere tra 2 alternative:
- investimento tramite Etf: costo annuo dallo 0,18% al 0,35%. Imposta pari all’1,35%. Costo complessivo annuo dall’1,48% all’1,65%.
- investimento tramite Pir: costo complessivo annuo dall’1,20% all’1,25%.
«Viene così evidenziato un vantaggio minimo che diviene oltremodo uno svantaggio accentuato per rendimenti azionari inferiori al 5% con in più un immobilizzo economico-finanziario di almeno 5 anni», rimarca.
Appare ancora più evidente la poca convenienza dell’investimento tramite Pir quando ci si focalizza sugli investimenti in obbligazioni. Al momento, i rendimenti sono di gran lunga inferiori al 5% e quindi con un costo annuo di commissioni del Pir di gran lunga superiore al risparmio fiscale ottenibile. Vi è un’ultima importante questione da valutare oltre alla scarsa convenienza e all’immobilizzo obbligatorio dell’investimento, conclude Accinelli segnalando che «chi non diversifica a sufficienza i propri investimenti con il Pir rischia di concentrare una parte eccessiva del proprio portafoglio su un solo Paese, l’Italia con tutto ciò che questo può comportare». Aiutare la crescita delle pmi è un obiettivo nobile, non altrettanto si può dire quando lo si fa a spese della collettività (tramite le esenzioni fiscali che sono spesa pubblica) e non attraverso il mercato.
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