Negozio chiuso? Rinegoziare l’affitto si può!
Il decreto Cura Italia ha lasciato molti argomenti in sospeso. Vista l’effettiva urgenza delle misure economiche di sollievo e di ristoro e la mancanza di tempo per una valutazione seria e approfondita delle singole questioni (il che non implica una generale assoluzione del governo Conte), non è il caso di accendere ulteriori polemiche. Ci limitiamo solo ad esaminare, pubblicando il contributo dell’avvocato Massimo Di Terlizzi, partner dello Studio Pirola Pennuto Zei & Associati, un’ipotesi di lavoro molto interessante.
Al momento, i titolari di contratti di locazione commerciale impattati dalle chiusure hanno sostanzialmente due strade dinanzi a loro. La prima è continuare a pagare e sfruttare un credito di imposta del 60% del canone annuo nelle dichiarazioni del 2021. La seconda, ovviamente, è non pagare – almeno temporaneamente – sperando che sia riconosciuto lo stato di necessità e che il locatore sia anch’esso ristorato dovendo pagare l’Imu e la Tasi sui propri beni. L’avvocato Di Terlizzi propone una terza via: cercare di rinegoziare il contratto puntando sulla sua risoluzione per via legale.
«Il Decreto Legge del 17 marzo 2020 n. 18 ha introdotto, all’art. 91, una specifica disposizione in materia di ritardi o inadempimenti contrattuali derivanti dall’attuazione delle misure di contenimento della diffusione del Covid-19, con la quale è sancito il principio in forza del quale il rispetto di tali misure deve essere sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti. Pertanto, è stato espressamente previsto che, ai fini della valutazione della sussistenza della responsabilità dell’obbligato in relazione all’inadempimento o al ritardo dell’inadempimento e al conseguente obbligo di risarcire il danno, deve essere considerato l’impatto sull’attività dell’obbligato stesso derivante dall’eventuale adozione delle misure di contenimento alla diffusione del Covid-19 previste dalle disposizioni in vigore.
La suddetta disposizione, con riguardo ai contratti di locazione di immobili adibiti ad attività industriali, commerciali e artigianali di interesse turistico, nonché alberghiere e di lavoro autonomo, non fornisce però un esaustivo chiarimento circa il comportamento da adottare in situazioni in cui la prosecuzione del contratto può divenire difficoltosa se non addirittura impossibile.
Giova tuttavia rammentare che già l’art. 27, ultimo comma, della Legge n. 392/1978 (Equo canone) prevede una specifica disposizione volta a costituire un rimedio a situazioni di difficoltà del conduttore alla prosecuzione del contratto di locazione prevedendo il cosiddetto «diritto di recesso per gravi motivi» dallo stesso esercitabile a mezzo di comunicazione con preavviso di sei mesi, termine questo che, alla luce della straordinaria urgenza di talune situazioni attualmente interessante dall’emergenza sanitaria Covid-19, dovrebbe poter ritenersi attualmente incompatibile.
Per consolidata giurisprudenza i “gravi motivi” previsti per l’applicazione della norma di cui trattasi devono essere, determinati da fatti estranei alla volontà di chi li invoca, imprevedibili e sopravvenuti successivamente alla costituzione del rapporto nonché tali da rendere oltremodo gravosa la prosecuzione dello stesso.
Va da sé che è quindi essenziale dimostrare che l’emergenza Covid-19 ha creato al conduttore un danno economico-finanziario (ad esempio legato ad un drastico calo dell’attività) tale da incidere significativamente sull’andamento dell’azienda, causandogli uno squilibrio finanziario che non rende più sostenibile il pagamento del canone di locazione, ovvero l’utilizzo dei locali.
Tuttavia, qualora l’attività (es. bar e ristoranti) sia suscettibile di riacquistare la propria funzione economica nell’auspicato caso in cui l’emergenza sanitaria abbia termine, in luogo del recesso “per gravi motivi”, che potrebbe avrebbe risolutori definitivi sulla continuità aziendale, sono da ritenersi più opportuni i rimedi previsti dall’ art. 1467 c.c. che disciplina il caso di eccessiva onerosità sopravvenuta.
Tale norma, che trova applicazione nel caso di contratti ad esecuzione continuata, periodica, o differita, prescrive infatti che nel caso in cui la prestazione di una delle parti sia divenuta eccessivamente onerosa a causa del verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili estranei alla sfera d’azione del debitore, la parte tenuta a tale prestazione possa domandare la risoluzione del contratto fornendo la prova del fatto da cui deriva l’eccesiva onerosità e della straordinarietà e imprevedibilità dello stesso.
La valutazione dell’eccessiva onerosità, che deve essere sopravvenuta rispetto al momento della conclusione del contratto, è di competenza del giudice, il quale svolge la propria valutazione secondo il principio del proprio libero convincimento, tenendo in considerazione tutte le circostanze del caso.
A questo riguardo, fermo restando che, in linea di principio la situazione di emergenza connessa al Covid-19 non può essere invocata ex se, in via generale, quale causa di forza maggiore legittimante la risoluzione dal contratto ma è necessario effettuare una valutazione caso per caso al fine di verificare se la prestazione dovuta, alla luce delle disposizioni emanate per far fronte alla situazione di emergenza causata dal Covid-19 e degli effettivi impatti delle stesse sull’attività dei soggetti contrattualmente obbligati, sia divenuta eccessivamente onerosa tenuto conto di tutte le circostanze concrete, da un punto di vista sostanziale, la disposizione di cui al già citato art. 91 del D.L. 17 marzo 2020 n. 18 ha introdotto, all’art. 91, che fungere da sostegno per avvalorarne la tesi.
Peraltro, la parte contro la quale è domandata la risoluzione del contratto ha la facoltà di evitare tale risoluzione offrendo all’altra parte di modificarne le condizioni, ripristinando così l’equilibrio tra le prestazioni».
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