«Non esistono problemi di serie A o serie B. Esistono atteggiamenti di serie A o serie B e sono questi, alla fine, che fanno la differenza». Daniele Cassioli, 36 anni, è cieco dalla nascita ma – come racconta lui stesso – l’amore della famiglia e la passione per lo sport hanno fatto sì che la sua educazione fosse orientata al «Daniele che sa fare» e non al «Daniele che non sa vedere». È noto al grande pubblico perché è campione paralimpico di sci nautico (slalom, figure e salto)  e ad oggi ha vinto 25 titoli mondiali, 25 europei e 41 italiani e detiene i record del mondo delle tre discipline in cui gareggia. Dal 2021 è membro della giunta nazionale del Cip (Comitato Italiano Paralimpico) come rappresentante degli atleti ed è inoltre presidente onorario della Fondazione Piramis Onlus dal 2020. Daniele è laureato in Fisioterapia ma, dopo aver svolto per alcuni anni la sua professione, si è reso conto che la sua storia poteva essere di ispirazione per chi non intende fermarsi dinanzi alle difficoltà quotidiane ma vuole migliorare. Si dedica, pertanto, alla formazione. Ha scritto un romanzo («Il vento contro») e un saggio («Insegna al cuore a vedere. Il bello è oltre la superficie delle cose»). Parlando con Daniele Cassioli si impara subito una lezione: non esistono sport olimpico e sport paralimpico, esiste lo sport.

Dottor Cassioli, il caro-energia rischia di mettere a rischio lo sport amatoriale e, soprattutto, le discipline paralimpiche. Il decreto Aiuti ha stanziato 50 milioni di euro. Sono sufficienti o sarebbe necessario che gli atleti con disabilità avessero una corsia preferenziale in virtù del valore sociale della pratica sportiva che abbatte le barriere?

«Sono convinto che lo sport di base tutto abbia bisogno di qualunque tipo di sostegno che permetta di evitare chiusure momentanee o definitive di società sportive e impianti, a prescindere che si parli di olimpico o paralimpico. Non ho gli strumenti per valutare se 50 milioni possano bastare, quel che è certo che qui ci sono in gioco le quote di movimento dei ragazzi, lo svago per gli adulti e soprattutto dobbiamo scegliere se considerare le attività ludico-sportive come un “asset” per l’educazione e la tenuta sociale del Paese oppure un puro vizio trascurabile e facilmente sacrificabile. Emergono dati sempre più preoccupanti in merito al disagio giovanile, quello che forse più colpisce è il sensibile aumento di assunzione di psicofarmaci, e chissà quante situazioni sommerse potrebbero essere facilitate o addirittura risolte grazie allo sport. In merito agli adulti sappiamo da secoli che muoversi ha un impatto sulla salute e le risorse economiche destinate a società e impianti sportivi sono quindi da considerarsi un investimento che potrà avere ricadute importanti anche sulla spesa sanitaria del Paese».

Lo sport paralimpico avrebbe bisogno di più risorse?

«Direi che lo sport intero avrebbe bisogno di più risorse. Nelle scuole, nei campetti di periferia e in tutti quei contesti in cui grazie allo sport si fanno uscire di casa i disabili, si allontanano i ragazzi da strade pericolose e si diffonde una cultura inclusiva di cui tanto si parla. Questo enorme lavoro è spesso quasi totalmente sulle spalle di piccole o medie realtà; bisognerebbe fare di tutto per non farle saltare. Se l’alto livello può contare su risorse giustamente dedicate al sostegno di quegli atleti che onorano i nostri colori, abbiamo accanto piccole realtà che rischiano di andare in rosso per pagare la palestra in cui fanno magari allenare 50 bambini, arrivando così alla chiusura. Questo non possiamo permetterlo: cosa faranno i nostri giovani in quel tempo che lo sport lascerà vuoto?».

Il suo ultimo libro si intitola “Insegna al cuore a vedere. Il bello è oltre la superficie delle cose”. Quanto la ha aiutata lo sport a vedere le cose?

«Lo sport inizialmente mi ha salvato, insieme alla mia famiglia. Poi mi ha regalato l’opportunità di distrarmi: mentre sciavo non potevo pensare alla cecità. Inoltre ha cambiato il mio modo di vedere le cose perché al mio sci importa poco che io non veda, conta semplicemente quanto sono disposto a fare per migliorare e crescere, a prescindere da qualunque alibi. Fare sport per me ha significato sperimentare il rapporto tra pari, conoscere altre disabilità, viaggiare e misurarmi con emozioni e dinamiche che altrimenti mai avrei imparato a gestire. Inoltre attraverso i successi sportivi che hanno accompagnato la mia carriera da atleta hanno creato una notizia attraverso la quale mi è ora possibile incontrare i ragazzi, le aziende e-o avere questo spazio per condividere le mie impressioni».

I suoi trionfi sportivi e la sua dedizione in allenamento sono una fonte di ispirazione per molti. La sua storia insegna a tutti noi. Che messaggio intende inviare a chi spesso si lascia sopraffare dalle difficoltà quotidiane?

«Di questo sono molto felice e mi preme dire che molto più dei successi, vado fiero del percorso. Dico questo perché ormai siamo in una società in cui conta la foto al traguardo, o meglio noi ci esaltiamo per la foto al traguardo. Qualsiasi successo reale, nello sport, a scuola, nella sfera personale o professionale dipende tantissimo dal percorso che siamo disposti a fare; ha a che fare con il coraggio di cominciare e perseguire lo sforzo che siamo pronti a fare per amore, amore di ciò che ci piace. Penso innanzitutto che la prima cosa su cui lavorare è la qualità delle domande che ci poniamo: “Quale parte del quotidiano mi crea difficoltà? E soprattutto quanto voglio faticare per stare bene e avere un rapporto costante con la felicità? Spesso si pensa che gli atleti paralimpici siano dei super eroi, io credo che siamo tutti super eroi, nel momento in cui impariamo a fare qualunque cosa partendo dal volerci bene per quello che già siamo».

Nella sua attività di formatore e mental coach lei aiuta i suoi ascoltatori a superare limiti e barriere. Cosa ci frena dal conseguire i nostri obiettivi personali?

«Ci frena la paura del giudizio, del cambiamento e dell’ignoto. Sicuramente allenarsi alla gratitudine, anche nelle piccole cose, è un ottimo punto di partenza ed è infatti una delle prime riflessioni che condivido nelle scuole, in contesti business e che ripeto a me stesso prima di andare a letto. Da qui si possono poi allenare l’ascolto attivo, la comunicazione efficace e la gestione delle emozioni. Ciò di cui sono certo è che noi non siamo divisi in chi ha carattere e chi non ce l’ha. Ognuno, se lo desidera, può allenare ciò in cui pensa di dover migliorare, giorno dopo giorno, ora dopo ora, proprio come l’atleta di alto livello che desidera di diventare più forte a ogni allenamento».

Gian Maria De Francesco

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