«Ecco le lauree che ti danno un lavoro»
La disoccupazione in Italia non è mai stata così drammatica da 35 anni a questa parte, fino al paradosso che il 38% dei giovani è senza un impiego e quasi un milione di famiglie italiane non può contare su alcun reddito mensile. A peggiorare un mercato già ridotto in macerie dalla crisi e dalla riforma Fornero, è stata la cura di sole tasse somministrata al paziente Italia dal governo Monti. Diventano quindi sempre più centrali le capacità del singolo e la sua formazione, che inizia appunto sui banchi di scuola e prosegue in università. Tra poco, dopo gli esami di maturità, migliaia di ragazzi e ragazze italiani dovranno scegliere se tentare la strada dell’impiego o proseguire gli studi in università e, in quest’ultimo caso, quale facoltà abbracciare mediando tra i propri sogni e il realismo delle professioni che sono richieste dal sistema-Italia. Dopo la Guida per trovare lavoro a 18, 25 e 50 anni, l’intervista al giuslavorista Michele Bignami e quella all’imprenditore Massimo Mauri, proseguiamo con Cristina Pasqualini, docente di Metodologia delle scienze sociali all’Università Cattolica di Milano.
Quando conviene la laurea umanistica e quando quella tecnica?
«Nel nostro Paese al momento conviene una laurea tecnica piuttosto che umanistica. Quest’ultima infatti apre mediamente carriere lavorative più lente, difficili, precarie, con retribuzioni meno elevate e, anche per questo, spesso demandate alle donne. In questi ultimi anni, alcune professioni e alcuni luoghi di lavoro stanno diventando sempre più di pertinenza di soli uomini e altri di sole donne, riproducendo vecchie separazioni e stereotipi difficili da sradicare, a totale svantaggio della qualità complessiva del lavoro».
Da quali elementi è opportuno partire per scegliere?
«Magari esistesse una ricetta, quello che posso dire, appoggiandomi alle statistiche, è che i giovani, nonostante la crisi e l’allarme disoccupazione di cui sono mediamente informati e consapevoli, nello scegliere il corso di studi universitario seguono sia motivazioni “espressive” (accrescere la propria cultura, trovare un lavoro coerente con i propri interessi) sia motivazioni “strumentali” (costruirsi una buona professionalità, trovare un lavoro redditizio). Meno importanti nella scelta sono le motivazioni eterodirette, come seguire i consigli o i desideri dei genitori, i quali, comunque vada, sostengono i figli economicamente e psicologicamente, anche per parecchi anni. Le nuove generazioni sono concrete, pragmatiche, sanno che alcuni mestieri sono merce rara, per cui preferiscono studiare intanto quello per cui si sentono portati e poi, eventualmente, cercare lavoro dove c’è, soprattutto all’estero. La mobilità non li spaventa. Dall’indagine “Rapporto Giovani” dell’Istituto di Studi Superiori Giuseppe Toniolo realizzata nel 2012, è emerso che quasi il 50% di 18-29enni è disposto a trasferirsi stabilmente all’estero per migliorare il proprio lavoro, alimentando il preoccupante fenomeno della fuga di capitale umano. Questo ultimo dato è stato confermato recentemente anche dall’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero), secondo cui, nell’ultimo anno gli emigrati tra i 20 e i 40 anni sono aumentati del 30%. Questo sì che dovrebbe farci riflettere».
Qual è la percentuale di disoccupati al termine dell’università?
«Secondo Almalaurea, tra i laureati di primo livello del 2011 intervistati ad un anno, il tasso di disoccupazione è pari al 24,5% e ad essere disoccupati sono in prevalenza i laureati umanistici, piuttosto che in discipline scientifiche. Ad avere un impiego è il 29,3% mentre il 40% è iscritto alla laurea specialistica e un ulteriore 15% sta facendo contemporaneamente entrambe le cose. Nel dettaglio ha un lavoro il 68% di coloro che hanno scelto una laurea in ambito medico e sanitario e il 38% di quanti hanno completato una formazione giuridica; la percentuale scende al 27% per gli indirizzi scientifici, al 20% per quelli economico-statistico e letterari. I tempi di attesa variano tra gruppi disciplinari. I laureati in discipline umanistiche – letterati, psicologi, avvocati – attendono mediamente più tempo (molti anche più di due anni) prima di trovare un lavoro, mentre ad essere immessi quasi subito nel mercato del lavoro (meno di tre mesi dalla laurea) sono soprattutto coloro che appartengono al gruppo scientifico e ingegneria. A cinque anni dalla laurea, il 90,4% dei laureati di primo livello lavora, di cui circa il 94% ha una laurea in ambito medico-sanitario, ingegneria, scientifico, economico-statistico contro il 72,5% in ambito letterario. Vorrei anche sottolineare la componente coerenza-soddisfazione del posto di lavoro, poiché ancora una volta sono proprio coloro che hanno una laurea umanistica a scendere più di frequente a patti per lavorare, dequalificandosi, accettando lavori non sempre pienamente coerenti con gli studi. Questo perché non tutti possono permettersi di attendere troppo a lungo. Ci sono poi coloro che, dopo la laurea triennale, proseguono gli studi e si laureano anche alla specialistica. La situazione non migliora di molto, infatti soltanto il 58,6% ad un anno dalla laurea lavora, mentre il tasso di disoccupazione è pari al 20,7%. Infine, a cinque anni dalla laurea specialistica, l’85,8% lavora e sono ancora i laureati in discipline scientifiche ad avere la meglio su quelle umanistiche. I dati sembrerebbero ancora una volta dimostrare che è preferibile una laurea (triennale e specialistica è indifferente) scientifica a una umanistica».
Come si abbina il master dopo una laurea umanistica?
«L’offerta dei master è oramai sterminata ed è importante sapersi orientare e scegliere bene. Individuare un percorso di studi quanto più professionalizzante, soprattutto per coloro che hanno in mano una laurea umanistica, difficile da spendere in tempi immediati nel nostro Paese. Essendo un investimento, non da ultimo economico, consiglio di farlo bene e possibilmente all’estero. Ma soprattutto consiglio di farlo anche presto, subito dopo aver concluso la laurea triennale, eventualmente anche in alternativa alla laurea specialistica. Allungare eccessivamente i tempi di ingresso nel mercato del lavoro, può essere addirittura controproducente a volte, proprio per questo è importante non perdere tempo, ma individuare il master che meglio possa essere speso per il tipo di professione che si intende intraprendere. Ci sono addirittura master sponsorizzati dalle stesse aziende o master universitari a cui le aziende guardano con interesse, in ottica di possibile reclutamento di risorse umane».
Quando conviene accontentarsi del diploma?
«Non tutti nascono con le idee chiare sul mestiere che vorrebbero fare da grandi. Gli idealisti vocati, ovvero coloro che hanno un sogno nel cassetto e si impegnano da subito e con tenacia a realizzarlo, ci sono ancora oggi, ma ci sono anche parecchi giovani che non sanno che direzione prendere, o, addirittura, che si perdono per strada. Un esempio sono i Neet, ovvero i giovanissimi che non studiano e non lavorano, gli inattivi convinti, che nel nostro Paese sono il 25,2% dei 18-24enni, contro una media europea pari al 16% circa. Piuttosto che entrare nella condizione di Neet è preferibile fermarsi al diploma e trovare al più presto un lavoro. Un ruolo fondamentale nei processi di scelta è giocato dall’orientamento. Ciascuno deve innanzitutto seguire le proprie inclinazioni – servono sia idraulici che ingegneri, entrambi professioni rispettabili, ricercate e ben retribuite – e trovare l’indirizzo di studi che meglio lo prepari alla professione che intende svolgere. Credo nel valore aggiunto di una laurea, ma penso al contempo che lo studio universitario fine a se stesso, lo studio senza progettualità, lo studio poco mirato, lo studio per perdere tempo o per prendere tempo in modalità “parcheggio” serva meno di un buon diploma professionalizzante. Una laurea – umanistica o scientifica che sia – vale ed è spendibile sul mercato del lavoro quando è conseguita con profitto, altrimenti è una occasione sprecata».
Come rilanciare l’industria della cultura in Italia?
«Nel nostro Paese sono noti i pesanti tagli alla cultura e alla ricerca. Tuttavia, è necessario rilanciare la cultura, la formazione universitaria in genere e in particolare quella umanistica. È vero che quest’ultima non dà sbocchi lavorativi immediati, ma è altrettanto preoccupante assistere a un generale imbarbarimento proprio tra le giovani generazioni. Di questo passo avremo sempre più ingegneri e sempre meno letterati, ma anche sempre più ingegneri, tecnici ed economisti che conoscono a menadito Archimede, ma che non sanno chi è Dante, che non sanno scrivere correttamente in italiano, con rispetto parlando. I giovani vanno educati innanzitutto ad avere una testa ben fatta, piuttosto che una testa ben piena, direbbe il sociologo francese Edgar Morin. Hanno bisogno prima di formarsi una cultura generale di base solida, sulla quale costruire, successivamente, le varie specializzazioni. A mio avviso, in linea di principio, una laurea umanistica è ancora un buon investimento personale, forse non economico ma culturale, di contro, professionalizzarsi molto presto, contribuisce a generare una sorta di analfabetismo di ritorno tra i più giovani».
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