“Signor Ben Canaan, anche se otterrete la spartizione e uno Stato libero ebraico, gli arabi non ve lo lasceranno: 500mila ebrei contro 50milioni di arabi? Non potete vincere”.

“Beh, tenteremo”.

Siamo a Cipro, nell’immediato secondo dopoguerra. Salita sul ponte di comando della “Olympia”, l’infermiera americana Kitty Fremont tenta di dissuadere dal suo proposito, apparentemente folle, un “ufficiale” dell’Haganah impegnato nella missione più importante: salvare 600 ebrei conducendoli da Famagosta all’unico posto in cui possono essere liberi: la Terra promessa.

E’ uno dei dialoghi centrali fra i protagonisti di un kolossal che proprio in questi giorni compie idealmente 60 anni: Exodus.

Uscito nel 1960 negli Usa e nel 1961 in Italia, il film è firmato da un mostro sacro del cinema: Otto Preminger. Scovato in Europa dai vertici della 20th Century Fox in cerca di talenti,  Preminger  si era trasferito negli anni Trenta negli stati uniti ed era ormai naturalizzato americano, ma era nato all’alba del nuovo secolo in un piccolo villaggio dell’attuale Ucraina – all’epoca parte dell’Impero Austo-ungarico. E aveva origini ebraiche. Per il suo capolavoro si era ispirato al romanzo Exodus di Leon Uris

Il film si apre con la visita cipriota della giovane infermiera americana che ha il volto Eva Marie Saint, attrice che nel 1960 era reduce da Intrigo internazionale di Alfred Hitchcock e aveva già vinto un Oscar nel 1955 per Fronte del Porto, accanto al grande Marlon Brando. Il protagonista assoluto di Exodus è altro mattatore, un Paul Newman affascinante e intenso come nelle migliori occasioni: nel film interpreta quel determinatissimo membro dell’Haganah che è intenzionato a portare a termine una missione umanitaria e militare che battezza la nascita di un popolo. “Non solo pregare ma battersi” dice infatti uno dei passeggeri a proposito del da farsi. Newman-Ben Canaan si è procurato la vecchia nave cargo e, dopo aver issato sul pennone la stella di David l’ha ribattezzata Exodus. Intende usarla per condurre verso la Terra promessa gli oltre 600 passeggeri che si trovano a bordo: uomini, donne e bambini reduci dai campi di sterminio, e provvisoriamente internati a Cipro dopo la liberazione dei lager.

La storia, magistralmente girata, prosegue con il braccio di ferro fra Ben Canaan e gli inglesi. Perché, scoperto il piano, per quanto riluttanti e confusi, gli ufficiali britannici che controllano l’isola bloccano la nave impedendole di lasciare il porto di Famagosta. Ben Canaan e la sua organizzazione però sono disposti a tutto: alla vigilia del voto dell’Onu sulla fine del mandato palestinese vogliono trasformare l’operazione in un caso internazionale. I profughi sono sfiniti ma non per questo meno determinati. Due madri in particolare si rifiutano di scendere per ragioni “umanitarie” e spiegano al comandante ben Canaan che la libertà dei loro bambini vale più di ogni altra cosa. Iniziano tutti insieme uno sciopero della fame, minacciano di far saltare in aria la nave carica di dinamite e il caso diventa diplomatico. Alla fine il governo inglese cede, la nave fa rotta verso l’ormai nascente stato di Israele.

Il racconto ha toni epici, ed è romanzato, ma si ispira a una vicenda realmente accaduta, e nata proprio in Italia. E la storia fa “capolino” anche nel personaggio di Paul Newman-Ben Canaan. Nel corso di un  dialogo iniziale con la donna che poi si innamorerà di lui, ricambiata, l’ufficiale dell’Haganah rivela infatti di far parte della Brigata ebraica, la ormai mitica formazione di soldati sionisti e “palestinesi” che fu inquadrata nell’esercito britannico nel 1944 e partecipando alle operazioni, e alla Liberazione, anche in Italia, dalla primavera del 1945. Alla donna che sottolinea ironica il suo titolo di “comandante”, Ben Canaan risponde così: “Sì capitano, Brigata ebraica di Sua maestà. Nord Africa, Siria, Libano e Palestina. Le decorazioni sono autentiche“. E altro fondamentale dettaglio che Exodus – stavolta involontariamente – rivela è riferito proprio alla parola “palestinese”, che viene usata in tutto il film nel suo significato proprio, e non in quello che la propaganda le ha assegnato dalla fine di quel decennio grazie all’invenzione di Yasser Arafat, leader “arabo” peraltro nato in Egitto. Fino alla guerra dei Sei giorni palestinese significava solamente abitante in Palestina, e non aveva alcuna connotazione etnica o religiosa.  La Palestina era semplicemente la regione geografica su cui vigeva il mandato britannico. E palestinesi erano indifferentemente arabi ed ebrei che vivevano in Palestina.