Narrano le antiche cronache di un popolo gaudente e scaltro che abitava da tempo le pendici del Vesuvius; un monte che sbuffava con indolenza ed eruttava solo quando era infastidito del frastuono della città.

Poveri in canna, ma famosi in tutto il Regno perché di buon cuore, gli abitanti di Neapolis erano talmente votati alla solidarietà e alla fratellanza da destare preoccupazioni alle varie dinastie di potenti che negli anni li governarono che, invece, volevano fare di quei sudditi razza organizzata e disciplinata.

L’intento non fu mai raggiunto. I popolani si dedicavano alla pesca e al piccolo commercio ma passavano gran parte del giorno discorrendo di filosofia, arte e poesia. Per questo furono invidiati dai vicini e lo furono ancora di più quando si scoprì che la generosità nei sentimenti e la spensieratezza era frutto di una metafisica profonda e non di lascivo disfattismo.

Popolo di cantori e di puri d’animo sempre pronti ad accogliere lo straniero da qualunque Contea provenisse, i neapolitani serbavano un segreto inconfessabile: la diversità derivava dalla “pigrizia’’, una virtù magica donata loro dal Dio Vulcano e che nel tempo si era secolarizzata in metafisica dell’esistenza. Grazie ad essa, erano in grado di incrementare naturalmente l’ozio creativo, combinandolo con riti pagani, superstizioni e credenze ma sempre liminare al fatalismo e mai oltrepassandolo.

Neapolis era anche terra di fierezze inaspettate, di briganti e di capipopolo, di Masanielli e di rivolte. Ma era la pigrizia a dominare tutto. Regolava eccessi e faceva prevalere il buon senso.

Passarono gli anni e le cose cambiarono. La virtù donata da Vulcano fu scoperta dai barbari delle terre confinanti. L’incantesimo svanì e si tramutò in corruzione dei costumi e dissolutezze. Neapolis divenne periferia fatiscente dell’impero e decadde al rango di cittadella. Ricettacolo per delinquenti e cantori volgari di neo-melodie. Non più dunque poesia ad allietare le radiose giornate ma sudicia prosa su bivacchi e meretricio, su furti e rapine; non soavi melodie modulate dalla sirena Parthenope ma stranianti e strazianti nenie gorgheggiate da adiposi giovincelli impomatati e sgraziate comari.

Il morbo della decadenza la assalì velocemente e penetrò le zone collinari dove vivevano i ricchi signori. Obnubilò le menti anche dei più temprati nello spirito e impedì ai corpi di affrancarsi dal male come si era sempre fatto, e cioè con un giro di ‘taranta’ e riecheggiando ancestrali canti.

Delle vecchie maschere e dell’arte finissima rimasero i cascami. Sopravvissero le imitazioni sbiadite di Masaniello incarnate di volta in volta dalle nuove dinastie regnanti e dagli ultimi reggenti: Laurus, il Comandante, poi Bassetino da Afragola, per lungo tempo contrastato da Musolina la sciantosa ed infine Demagistratus, signore nato in collina ma di mestiere finto ideologo dei rivoluzionari da vicolo.

Narrano le antiche cronache che un giorno, un tal Matteuccio Salvinius venne dal nord per arringare le folle. Ma la ‘pigrizia’ non era più in possesso delle genti neapolitane e tutti i moderni abitatori del luogo uscirono dai nascondigli per scagliarsi contro il nuovo arrivato. Non lo avevano mai fatto contro i signori delle colline; non si erano mai rivoltati contro i finti artisti e i criminali saldatisi in associazione. Non avevano mai cacciato a pedate i vecchi reggenti e le storiche dinastie. Ma questa volta per i neapolitani fu diverso. Presero a scrivere pure una canzone che per un giorno diventò un inno. A capo dei rivoltosi si posero i 9999Poste i cui testi da qualche anno venivano declamati nelle scuole della Contea con grave spregio alle antiche liriche. Vi fu gran frastuono per tutta la serata e nulla più.

Il giorno dopo Salvinius tornò nelle brume del nord, i 9999Poste e i Centri sociali si rinchiusero nelle loro fumisterie e tutti vissero felici e contenti, nascondendosi dietro finta pigrizia.

 

 

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