Basta un tratto di inchiostro per cancellare secoli di storia. Così parrebbe, perché dalle Alpi alle piramidi, dal Manzanarre al Reno, dalla Boldrini al consiglio comunale di Los Angeles dovunque suona forte il trombonismo del politicamente corretto. E sembra ci sia poco da fare.

Sono infatti tempi bislacchi quelli come i nostri dove la parvenza di un superficiale revisionismo storiografico, non solo diventa materia per riaffermare nuovi moralismi, ma è pure utile per plasmare e dar alimento alla più improbabile e arida diatriba politica che si nutre del vacuo elevato all’ennesima potenza. Ma che sempre vacuo rimane.

Questa volta tocca agli Stati Uniti che si apprestano a non celebrare la tradizionale parata che si tiene il secondo lunedì di ottobre, il Columbus day, sostituendola con una «parata di indigeni, aborigeni e popoli nativi».

Le polemiche delle ultime settimane tra statue abbattute di generali sudisti, teste mozzate di Cristoforo Colombo e Italo Balbo e quadri divelti dalle mura dei musei ci stavano preparando a gesti ancor più eclatanti come quest’ultimo sul quale nutriamo perplessità di ogni tipo. Perché, a dirla tutta, negli anni questa festa si era già trasformata in qualcosa di diverso e giocoso; una sorta di spettacolo estemporaneo dove nessuno sentiva la necessità di brandire antiche conquiste e nuove frontiere, o mostrare ad eventuali discendenti di quegli indigeni dei rinnovati aneliti di civilizzazione democratica.

Era soltanto una grande parata popolare in cui, soprattutto gli italo-americani, coltivavano tra folklore e memorie personali, i nuovi legami tra la terra d’origine dei propri avi e l’America delle mille opportunità. In fin dei conti, celebravano la propria eredità culturale in una terra che li aveva accolti, a volte a braccia aperte, molte altre quasi con fastidio.

Ma gli americani del terzo millennio sono stati chiari, come sanno esserlo le nazioni intimamente imperialiste, anche verso coloro i quali, tentando di raggirare il problema, avevano paventato l’idea di spostare il tutto in altra data: «Occorre smantellare le celebrazione di un genocidio sponsorizzate dallo Stato. Celebrare oggi o un altro giorno sarebbe un’ingiustizia». Affermazione perentoria espressa da un consiglio comunale e che risuonerebbe senza senso e di portata limitatissima se non fosse che, ad altre latitudini, risuonino purtroppo gli stessi echi in Parlamenti nazionali e Governi. Da italiani ci siamo sobbarcati infatti la fatica di una intera estate in cui c’è stato chi, un giorno sì e l’altro pure, ha discettato di massimi sistemi per poi precipitare nella malsana idea di abbattere monumenti costruiti durante il Ventennio o sequestrare l’accendino a Tizio o a Caio per via dell’effigie del Duce.

Mai pensavamo, però, che la deriva folle potesse prendere piede, e così velocemente, in tutto l’occidente. Seppur con modalità e tempi differenti ma con indirizzo strategico univoco.

E allora, a questo punto, verrebbe spontaneo palesare una ovvia curiosità rimasta insoluta: i signori che tengono le fila del Pensiero Unico si sono posti un limite temporale e uno spaziale (di tipo geografico, intendo), oppure hanno intenzione di fare rastrellamenti generalizzati per abbattere statue in ogni angolo della terra? Ci dicano, insomma, se vi è un limite a tutto ciò. Perché simili derive le abbiamo già viste nel corso della storia e quasi sempre sono contigue alla prevaricazione più subdola e autoritaria.

Ecco perché sconsigliamo loro, finché sono in tempo, di mischiare storiografia e attività legislativa, codici penali e memorie personali così come sta accadendo da tempo in Italia. E soprattutto, sommessamente segnaliamo che le memorie non si costruiscono o demoliscono a tavolino. Gli americani lo sanno bene anche se fanno finta di ignorarlo. Hanno tentato per decenni di alimentare il mito (western) della nuova frontiera e dei cattivi e feroci pellirosse. Ma noi tutti sappiamo quale spaventoso genocidio sia stato compiuto nei confronti delle popolazioni native e non per questo c’è qualcuno che voglia radere al suolo tutte le città degli Stati Uniti d’America con i suoi simboli e le sue figure più o meno mitiche.

La storiografia e la politica sono rette parallele. Vanno nella stessa direzione ma non possono incrociarsi.

 

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