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R. se ne è andato qualche sera fa, e il tepore che avvolge le vacue ampollosità natalizie si è trasformato in tempesta. Da allora non c’è stato più nulla di forzato; né la fratellanza, né la familiarità o l’affetto. Ogni sentimento è esploso nella sua naturale virulenza. Scarnificato dalla tragedia. Vitale solo perché legato al dolore intraducibile e reale di chi resta e alla potenza rivelatrice della morte.

Capita… nelle fredde serate di dicembre… capita, che tutti si predispongano per l’Evento della Nascita in modo che contesti privati e pubblici acquistino significato per via proprio di questa rinnovata promessa di resurrezione.

Quella flemma… certo, si è da tempo corrotta nell’interminabile preludio consumistico che apre ad una fagocitante smania predatoria e materialistica che tutto obnubila e sotterra. Ma questa orrida miscela di sacro e profano ancora riesce ad avvolgere ferite profonde, cicatrici mai rimarginate, angosce indicibili. I fumi del caos e del frenetismo più sguaiato riescono anche solo per qualche giorno a chetarsi; a velare ogni lancinante verità e a rivelare piccole (fasulle) oasi di serenità in cui ci culliamo con compiaciuta e accondiscendente finzione. E nonostante si faccia di tutto per smontare questo idillio, per perdersi nel frastuono e agghindarsi di felicità simulata, scorgiamo questo strano tepore che riesce a svelare ogni più crudo sentimento e che, pur invitandoci ad una fratellanza forzata, ce lo rivela come sempre voluto e auspicato. Lo scorgiamo e lo afferriamo a piccoli brandelli, mai comprendendone appieno la potenza, inconsciamente ricercata per tutta la vita.

R. se ne è andato cadendo da quel maledetto settimo piano. Un angelo caduto in volo… ha scritto banalmente qualcuno, parafrasando il cantore dei sentimenti più puliti. Quel volo che, dopo tante pene, stava invece spiccando nella sua vita privata. Con un amore consacrato nel giorno del suo compleanno, una casa, una direzione di marcia. Con tanti sacrifici, bocconi amari e frustrazioni indicibili fino alla beffa di social scatenatisi ancor prima che i più intimi sapessero dell’accaduto. Uno strazio nello strazio. Da queste montagne russe, in cui i sentimenti più nobili manifestati nella piazza virtuale montavano però come panna impazzita, sono stati inconsapevolmente tenuti fuori e quindi avvisati per ultimi, proprio loro, i suoi più intimi affetti.

Con lui mi incrociavo al solito posto… e sempre, e solo, con caterve di libri da spedire o ritirare. Da lì partivano dialoghi-confessione che, nel giro di qualche minuto, entrambi sapevamo… avrebbero preso passaggi obbligati.

Quel volo ha squarciato la Verità che ottenebriamo per decenni, forse per una esistenza intera ma che, prima o poi, prorompe violenta perché la vita acquista un senso solo per chi ha una fede ineluttabile, salda e sicura; altrimenti è un banale riposizionamento di pezzi all’interno di un mosaico senza limiti e confini. Ed io, non avendone una salda e sicura ma dubbiosa e tentennante, non comprendo le ragioni di questo affannarsi per uno stupido puzzle; e rimugino sugli interrogativi ‘ultimi’ con speciosa e noiosa ricercatezza senza mai trovare risposte appaganti.

Il tonfo di un angelo è sempre pesante, almeno per chi ne riconosce quell’etichetta e sa distinguere una persona per bene dalle mille altre, ordinarie e furbette. Ed il suo, è stato pesantissimo. E così, precisa come una lancetta d’orologio che dopo dodici ore è costretta a tornare sempre sullo stesso numero, puntuale e banale mi è sopraggiunta la solita, terribile domanda: «Qual è il senso del peregrinare umano?» Se una fredda e anonima serata di dicembre cancella una vita faticosa, disagevole ma degna, per quale motivo dovremmo inventarci un futuro? Straziarci… per tentare di edificare un esiguo riparo che, puntualmente, viene divelto dal naturale vento della vita?

Allo strazio di una morte che prende il sopravvento, e che per dei genitori è privo pure di una di una parola che la qualifichi o la contenga… perché non esiste nel nostro vocabolario un termine adeguato per definire il fatto che una mamma o un padre sopravvivano alla morte di un figlio… se ne aggiunge infatti un altro. Quello di un paese meschino come l’Italia – che rimarrà tale, nonostante proclami tronfi di retorica e demagogia – in cui i migliori sono costretti a muoversi come fantasmi, a vagare quasi senza identità. Figure trasparenti alla ‘civile società’, quella che preordina modelli e schemi. Di tanto in tanto, lasciati liberi di assumere qualche maschera ma solo per far parte in commedia.

Meschino e sciagurato è quel paese in cui una laurea in una disciplina umanistica e notti insonni sui libri vengono quasi derisi e umiliati, e che mai ti permettono di entrare nel mondo del lavoro dalla porta principale ma di approdarvi tardivamente, o di assaporarne piccoli assaggi, quasi come se si compisse un sacrilegio nel bramare l’ordinario.

Meschino e maledetto è quel paese in cui onestà e probità, sensibilità e dolcezza, buona educazione e i toni moderati e sobri sono considerati una sorta di handicap e non motivo di vanto e di distinzione.

Alla fine non esiste una morale da tirar fuori, una melensa frase da cioccolatini natalizi. Resta il vuoto… quel vuoto che tentiamo di ignorare seppellendolo sotto una caotica coltre di dozzinali attività quotidiane.

Ripartirà la giostra con i suoi clown e le maschere da commedia dell’arte. Il tutto, confinato in una sceneggiatura da tragedia.