Il pensiero ribelle
Da pochi giorni è uscito il mio nuovo libro, Il pensiero ribelle (Idrovolante dizioni, p.340) in cui tento di rintracciare delle connessioni tra una cinquantina di personalità del Novecento, diverse per sensibilità e orientamenti, come D’Annunzio, Longanesi, Gómez Dávila, Ezra Pound, Dugin, Thomas Mann, Zolla, Guareschi, Mishima, Heidegger, Cioran, Corridoni, Spengler, Drieu la Rochelle, Carl Schmitt, Robert Musil e altri ancora.
Quello che segue è il paragrafo dedicato a JRR Tolkien.
Tolkien, il cammino che disorienta
Come più volte ribadito, i percorsi del ribellismo possono essere eccentrici, vari e insoliti. I mondi di J.R.R. Tolkien (1892-1973), filologo e accademico, autore de Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli, sono per esempio quelli velati da un martellante pensiero razionale che tende a soffocarne la seppur minima percettibilità. Cammino che disorienta, perché ci espropria della nostra realtà, annulla passato, presente e futuro e ci rapisce in maniera globale. Ma da considerarsi ribelle anche per volontà degli altri. In Italia, si partorirono, più o meno distrattamente, alcune delle più memorabili definizioni di Tolkien e della sua opera.
La critica ideologica
A partire dagli anni ‘60 e con il graduale uniformarsi di tutta la cultura alle teorie progressiste Tolkien diviene semplicemente “fascista”. Un metodo e uno strumento di chiara matrice gramsciana, per la quale, in maniera insistita, anzi ossessionante, si delegittimava autore ed opera, in uno stupefacente perdurare di accuse: «I suoi testi – scrisse Roberto Cotroneo – non vengono letti solo come opere letterarie, ma si trasformano in carte geografiche dello spirito, in esercizi spirituali della memoria e dell’intelligenza (…). Forse in questa teologia fantastica, eccessiva, quasi abnorme, sta il limite autentico di un autore come Tolkien che non ha mai saputo crearsi un vero distacco dai suoi futuri lettori».
D’altra parte simbologie, mito, bagliori di esoterismo erano alla base di un’opera sin da subito disapprovata dall’intellighenzia progressista che, con giudizi fortemente riduttivi e in un clima di isterismo e di odio, non tardò a definirla in vari modi. Nel 1982 Vanni Ronsisvalle lo definì conservatore, reazionario, fascista, Guido Fink considerava sommamente ambigua la sua opera mentre per Saverio Vertone era «reazionaria, fascista e intinta di pangermanismo spirituale». Infine, gli attacchi della critica marxista che divideva gli ambiti di analisi e di giudizio considerando il fantastico di destra e la fantascienza di sinistra.
La diatriba si incamminò ovviamente sul versante politico-ideologico ma, in maniera più larvata, la questione riguardò molti paesi europei. Nel nostro, molti si chiedevano se, per esempio, le favole fossero di destra o di sinistra, se fossero responsabili di un «annientamento della ragione» o potessero essere – seguendo la linea di Italo Calvino – rappresentazioni in cui avrebbero potuto trovare spazio anche fenomeni storici come la Resistenza. Tuttavia, tesi fuorvianti visto che lo stesso Tolkien ripetè in più occasioni di opporsi per esempio all’uso dell’allegoria per svelare i significati reconditi della sua opera. Lo aveva fatto già nel 1947 con Rayner Unwin, il quale, dopo aver letto solo una parte della storia, riferì a suo padre che era chiara «la finalità allegorica della lotta tra il bene ed il male». Gli spunti, d’altronde, non mancavano: l’opera era stata scritta durante il conflitto mondiale e la successiva contrapposizione ideologico-militare tra blocco occidentale e sovietico avvaloravano talune ipotesi.
Molto opportunamente Michael White ha scritto che, con tali premesse, diventerebbe però molto facile rintracciare allegorie dappertutto: «L’uso del bianco e del nero per definire il bene ed il male; la decisione di rendere gutturale la lingua degli orchi, che alcuni possono interpretare come una distorsione estrema del tedesco parlato; e naturalmente, più rivelatrice di tutte, la posizione delle nazioni in lotta nel la Terra di Mezzo». Seguendo questa strada, per White, si potrebbero fornire giustificazioni a vantaggio delle proprie tesi in numero indefinito… così il Consiglio di Elrond che temporeggia molto prima di decidere potrebbe essere accostato all’insieme dei paesi alleati che tardano a comprendere il pericolo Hitler; o si potrebbe interpretare Mordor come allegoria della Russia comunista piuttosto che della Germania nazista, e via di questo passo, ma «ultima cosa che voleva era che i lettori svalutassero il suo alto concetto, sminuissero la sua epica grandiosa e senza tempo, mettendola in relazione con sporchi fatti della vita umana moderna».
Questi sentimenti di avversione da una parte e la recisa condanna al silenzio dall’altra, furono causa di una spirale di frequenti incomprensioni. Gianfranco De Turris analizza questa particolare forma di ostracismo, adottata soprattutto negli anni Settanta, e ne fa una disamina che parte da un assunto essenzialmente ideologico. In una simile prospettiva la critica all’opera di Tolkien è quasi esclusivamente ideologica e si fonda e si perpetua attraverso varie fasi. Innanzitutto, Il Signore degli Anelli partirebbe male, nel senso che dopo l’edizione per Astrolabio, qualche anno più tardi viene tradotto integralmente dalla Rusconi, considerata già da tempo una casa editrice reazionaria (per ragioni simili lo stesso trattamento sarà riservato all’Adelphi), e così scoppiano le polemiche oltre che l’ostracismo militante. Umberto Eco in un articolo dal titolo La parabola del buon reazionario (L’Espresso, dicembre 1970), descriveva la Rusconi come una casa editrice tesa a dare un volto presentabile alla destra (killer mascherato secondo l’ironico commento che ne fa Quirino Principe) e Tolkien il risultato di quella subdola operazione.
Le conseguenze che ne trae De Turris sono appassionanti. Innanzitutto la Rusconi, per la fama che si era conquistata di casa editrice non conformista, non ebbe nessun libro recensito in maniera positiva e da questo coro strepitante di accuse e di denigrazione non poteva tirarsi fuori Il Signore degli Anelli. Altra causa scatenante, la triade di intellettuali che fece conoscere e presentò l’opera: Alfredo Cattabiani che la scelse, Quirino Principe che la curò e Elémire Zolla che ne scrisse l’introduzione. Un terzetto di nomi che non poteva passare sotto silenzio. E infine il cuore dell’opera: esaltazione del dovere, rispetto per i valori tradizionali, cameratismo, irrazionalismo: «Inizialmente non vi fu alcuna appropriazione o strumentalizzazione del romanzo di Tolkien da parte della destra, ma un rifiuto immediato da parte della sinistra. Che non lo capiva e non aveva intenzione di capirlo, dato che il metro di giudizio utilizzato non era quello letterario-estetico, ma purtroppo soltanto – quello ideologico-politico: poiché Tolkien, cattolico tradizionalista e autore di un’opera “fantastica” e medievaleggiante non rientrava negli schemi mentali preconfezionati della sinistra, ma aveva tutti i crismi del nemico, venne posto al bando».
Le coordinate simboliche
I racconti si muovono, infatti, dentro coordinate apparentemente sempre uguali, come l’eterna lotta tra il Bene e il Male. Questo che però può sembrare un facile approccio manicheistico, che si alimenta nella eterna lotta, è in realtà vissuto e descritto in maniera personale. Sulla scia del filone medioevale, Tolkien pone la lotta tra Bene e Male, rappresentando quest’ultimo come assenza di Bene e dunque mancanza di luce. Il Male – riprendendone la visione agostiniana – non è rappresentato da una potenza in sé, ma dal nulla, dal buio, dall’oscurità, mentre il Bene dall’attaccamento ossessivo alla natura e alla terra.
Molti personaggi che rappresentano il male, nel momento in cui periscono in battaglia si dissolvono, spariscono nelle tenebre. Un semplice artifizio simbolico tendente a riaffermare la capacità dell’uomo di imporre la propria identità, di fronte al nulla imperante, al fatuo, all’invisibile. Ma vene sono molti altri di questi segni che avvalorano la tesi di una visione agostiniana del Male. Tante figure, già prima di scomparire, «ci vengono descritte come Ombre, prive di una propria consistenza (…)»; e poi, «la perdita di temporalità: tutte queste figure sono, oltre che incorporee, al di fuori delle leggi e del naturale scorrere del tempo (…). – La perdita del proprio nome: … è la perdita di identità totale, della propria essenza, quasi della propria anima (…). L’Anello (…) che indossato, provoca simultaneamente la perdita di spazialità (invisibilità e, in tempi lunghi, consunzione del corpo) e di temporalità (arresto dell’invecchiamento), (…). (…) il proprietario dell’Anello che più ne ha subito gli effetti, Smeagol, perde il proprio nome e viene chiamato Gollum, e pare egli stesso incapace di riferirsi alle cose, (…) chiamandole col proprio nome corretto».
E proprio in relazione a questa invisibilità che vi è la rinuncia all’Anello del Potere che omologa a tutti gli altri. Chi indossa l’Anello è simile agli altri e, pur credendo di detenere la chiave del potere, ne è irrimediabilmente soggiogato: è posseduto più che possederlo. Sceglie il Male, dunque rinuncia alla propria identità e si rende invisibile. La dicotomia bene-male non è però mai portata all’estreme conseguenze. Frodo, in realtà, sta per fallire la sua impresa, essendo anch’egli attratto dal potere dell’Anello, che viene distrutto grazie al suo precedente atto di pietà nei confronti di Gollum e all’amicizia senza confini con Sam. L’interpretazione che ne dà Marco Paggi è allo stesso tempo singolare e intrigante, corroborando in maniera sostanziale la tesi che vuole l’opera tolkieniana non ancora del tutto svelata. Paggi crede nello schema labirintico dell’opera nella quale molte risposte ancora sarebbero da scoprire. L’esperienza che ne verrebbe fuori è dunque «amorfa, inarticolata ed ineffabile, e dipende dal contatto che ciascuno di noi ha con i suoi dèi».
La sua non confondibilità nel panorama culturale del tempo è causa ed effetto di tutto il clamore che poi ha irrimediabilmente suscitato, e la capacità e l’intuizione di creare un mondo parallelo è l’aspetto cruciale della sua opera.
Tolkien fece in modo di non abbandonare questo mondo parallelo neanche da morto. Sulla tomba, dove fu sepolto insieme alla moglie, fece scrivere Edith Man Tolkien Lisithien 1889- 1971 e John Ronald Thiel Tolkien Beren 1892-1973, dove Luthien era la donna elfo che rinuncia all’immortalità per morire come il suo innamorato, il mortale Beren.