Ripropongo una intervista rilasciata, qualche giorno fa, al giornale Orwell live

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Giornalista e autore di saggi sui “pensatori scomodi” e contro il politicamente corretto, Luigi Iannone collabora alle pagine culturali del Giornale. Gestisce anche un blog «per smascherare i teologi del buonismo e della correttezza politica che condizionano la formazione delle coscienze e per misurare quanto sia marcato nelle singole vite e nei percorsi collettivi il nostro grado di assuefazione al conformismo». Dal 2011 è membro del consiglio accademico dell’Istituto di Alti Studi Strategici e Politici di Milano. Ha pubblicato opere dedicate a Tolkien, Prezzolini, Jünger, Schmitt, Nolte e Roger Scruton, il filosofo britannico di cui è considerato uno dei massimi divulgatori, e sul quale ha recentemente scritto un libro “Profili: Roger Scruton” per le edizioni Fergen.

Ormai, scrivere un articolo giornalistico significa, spesso, dover trovare qualcosa che non solo possa essere interessante per il lettore, ma che abbia anche gli elementi giusti a livello di immagine (foto, video e audio) per poter diventare virale sui social: questa ulteriore problematica, a suo avviso, limita o esalta la capacità di scelta del giornalista?

Dipende dalla prospettiva d’indagine. Io mi occupo essenzialmente di temi che appartengono al dibattito culturale dove tutto l’apparato che attiene alle immagini può essere meno rilevante. Non inutile, ma meno rilevante. Al contrario, i social possono però essere utili proprio alla divulgazione di tematiche meno “leggere” come quelle culturali.

Spesso si sente dire che Internet è il posto delle “fast-food news”, perché ormai gli utenti hanno poco tempo e leggono solo notizie brevi. Tuttavia, di recente, c’è chi si è inventato le “slow news” come alternativa a questo approccio. Lei da che parte sta?

Ogni iniziativa che tenda a invogliare alla lettura deve essere positivamente accolta. Ma ritengo che la velocità, il piglio epigrammatico e pure certa superficialità stanno coinvolgendo tutti, chi scrive per lavoro e chi per diletto. Purtroppo, non credo sia una tendenza destinata a scemare.

Come scriveva Walter Lippmann, le notizie formano una sorta di pseudo-ambiente, ma le nostre reazioni a tale ambiente non sono affatto pseudo-azioni, bensì azioni reali. È evidente che il fenomeno fake news vada ben oltre le classiche “bufale” e che prolifichi a seguito della ricerca spasmodica di “like” e di visualizzazioni. Secondo lei cosa manca ai media, e ai giornalisti più in generale, per riconquistare la credibilità perduta?

Non mi sento di dare consigli a nessuno. Faccio già fatica a comprendere le evoluzioni della “rete” e i mille travagli della editoria e della carta stampata che pensare di avere in tasca la soluzione a problemi del genere mi imporrebbe una dose eccessiva di supponenza. C’è di buono che, almeno per adesso, un minimo di accortezza e la verifica delle fonti, sono ancora premesse necessarie per non cadere come pivelli in trappole ben orchestrate. Ciò vale, come detto, solo per adesso. Il mondo corre veloce… più veloce di noi.

In Italia, così come altrove, la popolarità professionale dei giornalisti (e della professione giornalistica) è ai minimi storici. Qual è, secondo lei, l’errore più grave che commettono gli operatori del settore?

Siamo tutti caduti nel calderone magmatico dei “like”, dei follower e della popolarità televisiva. Un mondo plasmatosi sulle coordinate della “società dello spettacolo”, di cui parlò Debord, ha molta difficoltà a leggere e analizzare da visioni prospettiche non partigiane ogni tema o dibattito. A me, per esempio, fa orribilmente pena il teatrino dei Talk show televisivi dove, in maniera aprioristica, il giornalista A difende le scelte della destra e il giornalista B le scelte della sinistra, senza nessuna autonomia o spirito critico. Poi, c’è la solita questione del nepotismo. Il mondo del giornalismo (al pari di quello accademico) ha cancellato dal suo vocabolario, e da molto tempo, la parola “merito”.

Al di là di quello che ritiene qualche politico ci pare evidente ormai, a livello globale, che il bipolarismo non sia più tra destra e sinistra, bensì tra élite di garantiti e popolo dei non rappresentati. A questo si aggiunge il paradosso tutto italiano di una democrazia orfana degli spazi in cui una classe dirigente possa nascere e crescere per formazione e non per cooptazione. Su quali basi e con quali strumenti (anche informativi) sarà possibile – secondo lei -costruire una nuova e autentica connessione tra popolo e classi dirigenti?

Le classi dirigenti italiane sono storicamente asservite al potere di turno. Tomasi di Lampedusa, Prezzolini, Montanelli e mille altri ci hanno descritto vicende e aneddoti in cui la classe che guida (o dovrebbe guidare) la nazione si comporta ancor peggio della cosiddetta plebe. Poi, di quale classe dirigente parliamo? Mosca, Pareto, Michels, oramai servono a poco o nulla. A decidere i destini del mondo sono i padroni del web, le multinazionali, le grandi centrali finanziarie guidate da un’unica idea, quella del profitto.

Come accadde in passato con la televisione, oggi sono le esigenze del web a controllare la nostra cultura e, in Internet, si vive o si muore di click, perché garantiscono potere e profitti della pubblicità. Esiste, secondo lei, un modo per superare il dualismo Google-Facebook?

Queste aziende rappresentino dei veri e propri monopoli. Fin tanto che non riusciremo a creare una reale e ampia concorrenza tra diversi ‘”soggetti” sarà difficile pensare a qualcosa di diverso.

Grazie a Snowden sappiamo che Orwell aveva ragione e che ogni singola azione che compiamo online viene intercettata, monitorata e catalogata. Questo controllo, a sua volta, è un sensazionale strumento di potere aumentato dalle “censure” imposte grazie ai luoghi comuni politicamente corretti. Quanto di questo “totalitarismo tecnologico”, ritiene che sia oggettivamente colpa di chi dovrebbe informare correttamente, ovvero dei giornalisti?

Talmente intercettati e censurati che i miei due profili Facebook sono stati cancellati perché, a loro dire, avrei ‘’violato le regole’’. E quando ho cercato delle spiegazioni non mi sono state fornite. Un episodio gravissimo a cui ci stiamo abituando tutti. Il solo fatto che ci mettano a disposizione (e gratis) uno strumento di portata globale, sta depotenziando il nostro livello di difesa e la capacità di reagire colpo su colpo a progressivi restringimenti della libertà di pensiero.

Una delle suggestioni più frequenti tra gli addetti alla informazione è quella “robot journalism”, una definizione che viene associata all’uso di software in grado di realizzare testi di senso compiuto senza l’intervento dell’uomo. In prospettiva, lo vede più come un’opportunità o una minaccia?

Mi riesce difficile pesare a un software che possa esprimere sentimenti e passioni, gusti e repulsioni legate al nostro rapporto con una corrente filosofica, letteraria o artistica. Potrà vergare scritti sulla cronaca o su vicende politiche ma come farà per decrittare le sensazioni che ognuno di noi avverte leggendo un sonetto di Dante o dieci righe di Thomas Mann e a trovare l’aggettivo giusto per descriverle?

Secondo lei esiste una anche remota possibilità che il giornalismo – inteso come istituzione – possa scomparire per essere sostituita da un nuovo modo di trasmettere la conoscenza alle persone magari in maniera “meccanica”, o comunque con la definitiva affermazione del principio di induzione che attualmente gli algoritmi utilizzano per “selezionare” le notizie al posto nostro?

Notizie e temi del dibattito pubblico sono da sempre sottoposti a selezione. Il direttore di un giornale sceglie quotidianamente delle priorità e ad esse offre uno spazio importante, mai tralasciando tutto il resto. A mutare, negli ultimi anni, è il fatto che la discussione pubblica venga sempre più spesso veicolata su qualche specifico tema per essere abbandonata, poco tempo dopo, quando è riuscito il tentativo di silenziarne altri. Non mi meraviglierei se tutto ciò fosse ben orchestrato ed etero diretto.

Secondo lei come leggeremo le notizie tra 5 anni?

Ho l’impressione che la nostra prima preoccupazione sarà “cosa leggeremo’’ e non come la leggeremo.

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