Negli ultimi tempi risuona con sempre maggior forza – e a tutti i livelli – una furia iconoclasta e un assoluto disprezzo verso la cultura umanistica. Qualche giorno fa, la Howard University di Washington, da cui è uscita la numero due degli Stati Uniti, Kamala Harris, ha smantellato il dipartimento di studi classici adducendo le solite pacchiane giustificazioni. Questa furia sembrava voler mettere sotto tiro solo statue e simboli, in realtà, come testimonia quest’ultimo episodio, il tentativo è quello di cancellare il passato coprendo con una pesantezza plumbea l’intero occidente.

Ecco perché l’uscita di un poderoso volume che raccoglie gli Scritti politici di Aristotele (Rubbettino editore, p. 690) assume una consistenza simbolica ancor prima che contenutistica. Beninteso… si tratta di un lavoro pregevole. E Federico Leonardi, che ne fatto la curatela, tradotto frammenti e testimonianze delle 148 Costituzioni seguendo la ricostruzione del filologo svizzero Olof Gigon, col suo saggio di 176 pagine in premessa, ne ha reso ancora più indispensabile la lettura. E infatti emergono rilevanti motivi di interesse per scritti che paiono legarsi con una certa immediatezza alla nostra discussione pubblica.

Aristotele sottolinea la necessaria e imprescindibile relazione tra storia e politica, tra lettura dei fatti nel tempo e nello spazio. La storia degli altri popoli gli serve per mettere insieme una rassegna universale ed esaustiva e quindi codificare i meccanismi di governo, le lotte intestine, i caratteri specifici, i sistemi politici. Di conseguenza, solo esaminando peculiarità e elementi di vario tipo si può trarre un modello adattabile. In fondo, se noi abusiamo del concetto spengleriano di Tramonto, lui si muove tentando il contenimento della decadenza della Città greca. Ma per fare ciò, ritiene doveroso guardarsi attorno, analizzare geografie e contesti umani e sociali, e non rifarsi a schemi precostituiti o incatenarsi allo “Stato ideale”. Errore marchiano che, per esempio, continuiamo implicitamente a fare noi tutti quando esaltiamo modelli istituzionali e di governo ritenendoli facilmente traslabili da altri paesi.

E così cataloga – insieme ai suoi allievi – 148 costituzioni di città, approfondendo diritto consuetudinario dei barbari, le leggi di Solone, le rivendicazioni delle città greche, e adottando un metodo che è in sé esplicativo e risolutivo per ogni tempo: «In primo luogo, sforziamoci di esaminare tutti i buoni comportamenti, anche se parziali, annotati dai nostri predecessori, poi da uno studio di tutte le costituzioni, mettiamo in rilievo quali sono gli elementi che preservano e quali quelli che distruggono le città e le loro diverse costituzioni; e quali le ragioni per cui alcune sono ben governate, altre no. Quando avremo compiuto questo esame, saremo capaci di vedere meglio quale sia la migliore costituzione, come siano distribuiti i suoi poteri e su quali basi etiche e giuridiche essa si fondi».

Conosce quindi il mondo e matura esperienze sul campo che incidono sulla sua opera politica. Se Platone, agevolato anche dalle disillusioni, ha una inclinazione decisa verso l’applicazione filosofica e perciò tende alla solitudine, Aristotele non si estranea da vita familiare, professione lucrativa, azione politica. Ovviamente non esautora mai la speculazione teoretica ma sui sistemi di governo impasta le mani nella realtà. E la storia è lo strumento primario per elaborare una teoria politica. La brillante intuizione dell’uomo come animale politico che si caratterizza per l’appartenenza a una polis, è frutto di questa apertura sul mondo. La famiglia, la tribù, il villaggio, la città, sono diversi momenti di evoluzione delle associazioni umane che egli studia e cataloga sin nei minimi particolari. Così, se i pensatori cinici del IV secolo scorgono nella vita politica un limite alla vita naturale dell’individuo, Aristotele difende la Città e sottolinea l’efficacia di queste associazioni e dei sistemi politici.

Quasi un paradosso: il più grande filosofo che si muove in maniera pragmatica. Figlio di un greco divenuto medico del re di Macedonia, non era nemmeno ateniese. Ad Atene arriva nel 367 e partecipa alle attività dell’Accademia ma ciò che caratterizza la sua formazione sul fronte politico è quanto accade dopo. Dal 347, dopo la morte del maestro, lascia la città e raggiunge nella Troade un altro discepolo dell’Accademia, Ermia, monarca di Atarnea che lo apre ai primi rudimenti della politica di uno Stato. Si trasferisce per due anni a Lesbo, diviene quindi precettore di Alessandro (343-340) e infine ritorna ad Atene dove fonda il Liceo.

Altro motivo di interesse di questi scritti è l’enfasi sulla classe media, che legge come sorta di utile cuscinetto tra la consorteria dei ricchi predisposti all’egoismo e all’ambizione sfrenata e quella dei poveri, che se lasciati imputridire in una condizione senza via d’uscita, rappresentano una minaccia per lo Stato. Tenendosi lontana dagli eccessi dell’una e dell’altra parte, la classe media si mostrerebbe garante di equilibri generali e, per questo, quella più appropriata nella gestione della cosa pubblica.

Anche qui, anticipa di due millenni le polemiche contemporanee sul tema. Quante volte nelle nostre anche più ordinarie discussioni abbiamo evidenziato la pericolosità di quel corto circuito tra economia e sistemi politici che fa crescere le diseguaglianze, allarga la forbice tra poveri e ricchi e mette all’angolo la classe media? E quante volte abbiamo ricordato che una condizione di tal genere fa oscillare pericolosamente il pendolo tra seduzioni populistiche e derive tecnocratiche? Ebbene, Aristotele intuisce tutto ciò, e pur classificando tre tipi di modelli (monarchia, aristocrazia e politeia) con rispettive forme degenerate, non tende a chiudersi in uno sterile schematismo. Studia la varietà delle combinazioni, segnala la forma migliore ma la sottopone ad un continuo processo di pesi ed equilibri in modo da mantenere inalterata l’armonia generale.

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