Una comune passione jüngeriana. Era questo che mi accomunava a Manuel Rossini… uno slancio impetuoso ed enorme per la biografia umana e intellettuale di Ernst Jünger. Ma non solo!

Lo avevo contattato alcuni anni fa invitandolo a mandare un contributo saggistico per un volume collettaneo che stavo curando proprio sul filosofo tedesco e lui, oltre ad accettare senza indugio, fu prodigo di consigli. Da quel momento ci mantenemmo in contatto grazie a numerose mail e interminabili telefonate.

Una condizione, allo stesso tempo, strana e straniante. Fino a che il male non lo iniziò a divorare con una certa demoniaca prepotenza e ne fiaccò quasi integralmente le forze, abbiamo continuato a sentirci. Periodicamente ci incrociavamo con queste lunghissime chiacchierate telefoniche che duravano non meno di un’ora… un misto tra confessioni, rimpianti e idee per eventuali ripartenze e quindi nuove pubblicazioni o scritti brevi a forma di articolo, per poi, alla fine, darci appuntamento per un nuovo incontro, sempre virtuale: perché non ci siamo mai conosciuti di persona!

Discorrevamo di molte cose: idee per nuovi libri, ipotesi di studio, libri di seconda mano trovati su bancarelle eppur utili per le nostre rispettive pubblicazioni e per approfondimenti di vario titolo, adesioni o rifiuti a nascenti riviste culturali e, talvolta, anche di politica. Quest’ultima entrava e sollecitamente usciva però dai nostri scambi di vedute come una sorta di cometa che appare, manifesta la sua presenza e poi svanisce subito dopo. Il focus e il nostro sguardo analitico era indirizzato sulla umanità decadente e priva di ogni minimo sussulto che esprimeva quelle classi dirigenti e non su quest’ultime.

C’era tuttavia un leit motiv che lo tormentava e che trovava consonanza nelle mie pene. Un’angoscia che ho mitigato gradualmente arrendendomi forse per pura codardia da ostacoli che ritenevo invalicabili e che Manuel, mai domo da questo punto di vista, ci teneva ad affrontare a qualunque costo e a valicare. Un tormento che probabilmente ha generato quel Male che lo ha divorato. Perché non è vero che le pene della vita vengono superate col tempo e che le ferite si rimarginano. Non è assolutamente vero!

Sono baggianate… fandonie da poetuncoli di quart’ordine; consolazioni per chi vuol chiudere gli occhi e non avere consapevolezza della nostra piena tragica esistenza. Tutto, infatti, resta ancorato nel fondo della nostra anima, la quale viene lentamente recisa e dilaniata dai frammenti setacciati e sedimentati in quel piccolo anfratto durante una intera vita. In taluni, questa consapevolezza non è data; in altri, è appena avvertita; in Manuel, era invece una condizione di piena cognizione da cui, purtroppo, è impossibile trovare scampo. Non è detto che un simile presupposto porti allo sgretolamento della vita e alla corruzione angosciante di una quotidianità pervadente ma di certo incide nel profondo e indirizza propositi, scelte, atteggiamenti. Inoltre, la consapevolezza è sintomo di maturazione ma spinge inesorabilmente verso la sofferenza!

Abbiamo passato molto tempo a discorrere del malcostume imperante nelle università italiane con quei torbidi meccanismi di valutazione in cui si consolidavano e continuano a consolidarsi i tirannici poteri dei Baroni. Una fanghiglia in cui rozzamente si alimentano compiacenze, scambi di favore, concorsi farlocchi e verso la quale molti pongono una risibile fiducia, una sorta di fideistico ottimismo.

Manuel era invece uno studioso fuggito dall’Italia (per meglio dire, obbligato alla fuga)… da un terra matrigna e infame che non riconosce il merito e le capacità e che non lo aveva voluto stringere a sé. Altri erano e sono ancora i giochi che ammantano come una piovra le istituzioni della scuola e le accademie.

Nell’ultima fase della sua vita mi confessò della malattia e quelle parole mi creavano ogni volta non poco turbamento.

Aveva un approccio – almeno con me, ma ritengo anche con i familiari e gli altri conoscenti – disperato, cioè di chi sa che la battaglia andrà persa, e tuttavia didascalico e puntuale. Non un’affannosa afflizione (ovviamente, c’era anche quella!) ma una cronaca particolareggiata di sintomi, dei farmaci, degli ospedali “visitati” e da “visitare”, delle tipologie di dolori, il tutto con una tragica spietatezza. Coglievo l’ambivalenza di una posizione di resistenza da un fronte che sapeva essere di lì a poco sopraffatto dal nemico. Combatteva ma con armi impari un nemico più forte.

A questa onestà intellettuale e a questa dignità personale facevo fatica a rispondere con pari sincerità. Come quei generali che ordinano alle truppe di mantenere le posizioni, pur avendo consapevolezza dell’accerchiamento e della soverchiante forza nemica e quindi dell’esito finale della pugna, così lo invitavo a combattere nell’attesa di una svolta positiva che, a quel punto, compresi che non sarebbe mai arrivata.

La fine mi era stata preannunciata ed ora che leggo questo suo ultimo libro mi rendo conto di quanto taluni dei temi jüngeriani abbiano così profondamente attraversato i suoi studi e ancor di più le sue vicende private. In fondo, perde chi non lascia nulla su questa misera terra. Perde chi non combatte o chi non lascia in eredità un frutto di questo suo peregrinare.

Manuel Rossini ci ha lasciato questi scritti e quelli precedenti come testimonianza dell’amore per la filosofia e della sua battaglia di vita.

 

Postfazione a Ernst Jünger reload (Edizioni Ombre Corte), libro postumo di Manuel Rossini

Ernst Jünger reload

 

 

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