Esiste una riconoscibile filosofia italiana e ciò che viene internazionalmente definito come Italian Thought ? Ed esiste una continuità logica e strutturale che possa connettere le personalità di primo piano del nostro tempo a Dante, Vico, Machiavelli o Gramsci, o che innervi in un unico piano analitico gli interpreti più importanti del “pensiero italiano” del passato con pensatori quali Spaventa, Gentile, Garin o Esposito? Ed esiste – pur nelle evidente difformità di azioni e percorsi – un tratto distintivo comune, nazionale e non nazionalistico, internazionale e non globalista?

Le risposte a simili quesiti tenta di articolarle Corrado Claverini nel suo ultimo denso volume dal titolo La tradizione filosofica italiana. Quattro paradigmi interpretativi (Quodlibet edizioni, p.215, euro 20) di cui, qui di seguito, riproduco una parte della introduzione

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Uno dei temi filosofici più discussi degli ultimi anni è senz’altro quello relativo alla specificità del pensiero italiano. In particolare, le domande al centro dei dibattiti sono di due tipi: a) è legittimo parlare di una filosofia italiana? Oppure la filosofia, in quanto tale, è apolide e non è determinata da fattori di tipo territoriale? b) Posto che sia ammissibile l’esistenza di una filosofia specificamente italiana, qual è la sua essenza? È possibile individuare caratteri peculiari che la contraddistinguano rispetto ad altri patrimoni di pensiero, come quello inglese, tedesco o francese?

Oggi l’argomento è, appunto, al centro dell’interesse di molti studiosi. Ma occorre chiarire fin da subito che la questione riguardantela specificità del pensiero italiano non è nuova. Molti studi riconoscono che il primo a trattare in maniera consapevole questa tematica nell’ambito della storiografia filosofica è stato Bertrando Spaventa.

Nel presente saggio saranno analizzate le principali posizioni in merito al senso e alla produttività che può avere il costante raccordo del pensiero italiano con la propria tradizione e quanto questo raccordo possa oggi funzionare per riorientare lo sguardo filosofico liberandolo da talune «incrostazioni» moderne ormai esaurite o quantomeno divenute assai problematiche.

Tale questione verrà affrontata soprattutto attraverso lo studio di un preciso vettore filosofico – quello della «storia della filosofia italiana» – il cui iniziatore è il già menzionato Spaventa. Infatti – prima dell’ItalianThought – è stato proprio tale vettore filosofico a interrogarsi costantemente e con molta forza sull’identità e il ruolo del pensiero italiano.

Ma, prima di esaminare le principali prospettive interpretative, dovremo discutere e cercare di risolvere tutta una serie di questioni preliminari già anticipate in apertura.

Innanzitutto, occorre chiedersi se sia possibile parlare di una filosofia declinata in senso nazionale o territoriale: infatti, la filosofia aspira per sua natura all’universalità; e l’essere eventualmente determinata da fattori di tipo geografico sembra contraddire questa sua vocazione costitutiva.

In secondo luogo, bisogna chiarire, a proposito dell’espressione«filosofia italiana», il significato da dare all’aggettivo «italiana»: ci riferiamo alla nozione statuale o a quella nazionale o, ancora, aquella geofilosofica di territorio?

In terzo luogo, è necessario ragionare anche sui pericoli che comporta una riflessione di questo tipo il cui rischio concreto è di trasformarsi in ideologia nazionalista.

Un altro punto decisivo che dovremo affrontare è che cosa significa e che senso ha oggi parlare di una tradizione specificamente italiana in un mondo sempre più globalizzato. Per esempio, sarà utile discutere il valore che può avere la riscoperta di tale patrimonio di pensiero nell’attuale contesto europeo e mondiale. Il che può essere anche un’occasione per riflettere sull’identità italiana e su quella europea.

Ecco perché una ricerca di tal genere è necessaria e non anacronistica. Infatti è di fondamentale importanza oggi tentare di rispondere ad alcuni interrogativi di stringente attualità: che valore hanno le tradizioni nazionali (nel nostro caso filosofiche)? È opportuno continuare a usare il concetto di nazionalità? E in che modo? Anche perché è bene evitare che l’utopia illuministica della pace perpetua internazionale si trasformi nella distopia di un cosmopolitismo indifferenziato.

La soluzione non risiede certo nella chiusura nazionalistica, da respingere tanto quanto la globalizzazione transnazionale. Rifiutando sia il globalismo, sia il nazionalismo, occorre quindi chiedersi: è pensabile una terza via alternativa tanto al nazionalismo quanto al globalismo? Ovvero, è possibile una salvaguardia delle culture nazionali senza nazionalismo? È concepibile un «internazionalismo» alternativo al paradigma «globalitario»?

Sono queste le domande che ci accompagneranno lungo il tragitto che si dispiegherà nei prossimi capitoli e a cui si è cercato di rispondere.

 

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