L’opera di Edmund Burke, almeno nella primissima parte della sua vita, è andata incontro a classificazioni fin troppo inconsistenti. Qualcuno si era illuso che questo scrittore britannico di origine irlandese potesse essere identificato come un progressista, addirittura un radicale; per altri ancora, come l’esponente di spicco del “liberalismo utilitario”. A leggere la sua biografia intellettuale appare però un fronte sinuoso ma chiaro da cui non si è mai discostato in ogni fase della sua esistenza. Come ha scritto Robert Nisbet, i temi degli ultimi due secoli non sono altro che corollari agli enunciati di Burke: la condanna netta della ragione individualista e di quei diritti astratti che finiscono sempre per confondere la “libertà ordinata” con l’anarchia.

Quando nelle Riflessioni sulla Rivoluzione francese parla di carte blanche tenta di scongiurare il tentativo di rendere il proprio paese una sorta di carta bianca su cui poter scribacchiare a piacimento. Burke riteneva che lo scorrere del tempo e i fatti che all’interno di esso si accumulano hanno un valore normativo molto più profondo di quanto pensiamo e, se assecondati, lavorano in profondità sulle istituzioni e sulle relazioni sociali. È in questo modo che il passato diventa tradizione, acquista solidità e autorevolezza, e può quindi dispiegarsi col suo carico di prescrizioni e di valori sul presente e sul futuro.

La sua battaglia culturale e politica fu quindi quella di evitare che le nazioni potessero diventare “carta bianca” dove ognuno avesse l’ardire di promulgare in assoluta e caotica libertà sempre nuovi e fantasiosi diritti.

A svelarci questo lungo filo rosso è Storia e tradizione (Mimesis, p.190), un volume che con la curatela e un ampio saggio introduttivo di Giacomo Maria Arrigo raccoglie tre testi inediti in Italia: Discorso sulla rappresentanza dei Comuni in Parlamento (1782) da cui prende proprio il via la teoria burkiana del “ruolo normativo della tradizione”, Lettera a un membro dell’Assemblea Nazionale (1791) e Lettera a William Elliot (1795). Testi che rappresentano una difesa dei popoli contro le riscritture moralistiche e i programmi di ingegneria sociale dei politici (carte blanche) che nonostante le buone intenzioni finiscono per creare l’inferno sulla terra.

La prima Lettera è una estesa invettiva nei confronti di Rousseau e della sua filosofia. Nella seconda, tratteggia i contorni di un “nuovo spirito repubblicano”, un principio morale e politico alternativo all’ideologia rivoluzionaria. Ma è il Discorso a fare da epilogo a tutta la costruzione teorica proprio perché scritto sette anni prima della presa della Bastiglia. Quando infatti avrà di fronte la Rivoluzione il suo percorso sarà già chiaro e potrà definitivamente scagliarsi contro la pretesa «rigenerazione della costituzione morale dell’uomo» operata dai rivoluzionari francesi che, in nome di una «benevolenza universale» concepivano l’inversione «del corso dei sentimenti naturali».

Il Discorso appare come preparazione teorica di tutti i suoi enunciati futuri. Qui, infatti, Burke parte da lontano. Si scaglia addirittura contro gli astratti diritti dell’uomo proclamati dai radicali inglesi e che, dopo lunga maturazione, saranno fatti propri dai filosofi della rivoluzione francese. In queste pagine è infatti già in nuce l’analisi sul rapporto tra libertà e norme, tradizione e anarchia che svilupperà in seguito: «c’è un estremo nella libertà, un estremo che può essere gravemente nocivo per coloro che lo dovessero ricevere, e che alla fine non permetterà di conservare alcuna libertà. Ebbene, non voglio avere nemmeno un briciolo di questa libertà». Non solo, dunque, la condanna dei diritti astratti, e spesso pretesi anche oltre ogni logica, ma il disvelamento del pericolo più grande, quello di una “libertà ordinata” confusa con l’anarchia.

In fondo, tutta la lezione filosofica di Burke, è condensata nel Discorso. Qui allerta i suoi contemporanei sulla pericolosità dei «pretesi diritti» ma consegna una lezione valida anche per le generazioni successive: i diritti di libertà vanno difesi senza polverizzare la Tradizione, o almeno ciò che ne resta.

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