Ernst Jünger è tra i pochi scrittori del Novecento a distinguersi per una straordinaria capacità di scandagliare la realtà con uno sguardo pervasivo che trascende i confini delle discipline e gli consente di dialogare con una molteplicità di ambiti.

Sin dalle sue prime opere, dedicate agli scenari di guerra, approfondisce la realtà della tecnica e gli orizzonti inediti che essa apre in ogni ambito. Ne analizza le imposizioni, dirette e indirette, tracciandone i profili con lucidità, fino poi a soffermarsi anche sulle trasformazioni artistiche che da esse scaturiscono. Una peculiare attenzione è rivolta alla fotografia e al cinema, che l’autore considera strumenti di massima oggettività e riproducibilità e che soppianterebbero l’unicità irripetibile del teatro, con rappresentazioni destinate a una riproduzione infinita. La peculiarità delle arti industriali segnerebbe il declino del gesto epico, il quale, tuttavia, trova nuova espressione nella guerra moderna, caratterizzata da un’azione rapida e impersonale che, proprio grazie a tali strumenti, può essere però eternata.

Questo cambiamento emerge con particolare evidenza durante la Grande Guerra, il primo conflitto documentato in modo sistematico grazie all’impiego di dispositivi fotografici montati su palloni aerostatici e aerei. La fotografia, definita «il modo di osservare il mondo del Lavoratore», si rivela così lo strumento ideale per cogliere l’essenza profonda della nuova realtà, andando oltre la mera registrazione dei dettagli, e mostrando come l’essere umano stia per trasformare radicalmente il proprio modo di percepire e interpretare il mondo, inaugurando una prospettiva inedita capace di unire tecnica e osservazione assoluta.

Jünger abbraccia pienamente questa prospettiva, non solo attraverso il filtro dell’analisi filosofica e del racconto letterario, ma cercando di fissarla in forme visive. Nel breve arco di quattro anni, infatti, dà alle stampe una serie di volumi fotografici che offrono una rappresentazione inquietante del terrore diffuso e della costante condizione di rischio, nell’intenzione di dimostrare che essi stiano per diventare tratti distintivi della società anche al di fuori del contesto bellico. Nel 1930, a Lipsia, pubblica due opere: una dedicata all’aviazione e un’altra alle esperienze dei soldati tedeschi al fronte. L’anno seguente esce un terzo volume, focalizzato sul nemico e sulle vicende di guerra degli avversari. Nel 1933 vede la luce Il mondo mutato, scritto in collaborazione con l’amico giornalista e fotografo Edmund Schulz, e L’attimo pericoloso. Quest’ultimo è accompagnato da un’introduzione che esplora i «momenti pericolosi» della vita dell’uomo moderno, prendendo le mosse dalla figura emblematica dell’Operaio, che appare come l’incarnazione perfetta di questa nuova realtà. I volumi spaziano dalla meraviglia dell’aviazione alle esperienze belliche di entrambe le fazioni, culminando ne L’attimo pericoloso, un’opera che mette in evidenza il contrasto perpetuo tra ordine e minaccia. In essa, si riconoscono la tensione, costante ma latente, che Baudrillard avrebbe definito il «nuovo regime delle catastrofi»: una condizione in cui terrore e stabilità, caos e controllo convivono paradossalmente. Da questo punto in poi, tali dinamiche diverranno il fulcro centrale della riflessione di Jünger sulla modernità.

Un esempio significativo di questa riflessione si ritrova ne Il mondo mutato, dove il tema del lavoro nell’era della globalizzazione viene esplorato in tutte le sue varianti. Attraverso la fotografia, che diventa strumento privilegiato, sono catturati sia gli istanti di intensa espressività umana sia le dinamiche che fondono l’individuo con la realtà del lavoro e della mobilitazione totale. L’impiego della fotografia e dell’iconografia non solo accompagna la straordinaria evoluzione intellettuale di Jünger, ma riflette talvolta un intento di svelare il “nuovo” e, allo stesso tempo, quello di velare significati complessi, in parallelo con l’affinamento di uno stile letterario sempre più rarefatto ed enigmatico, come osservato da Heimo Seferens, che racchiude tutto ciò nel concetto di «ermetismo frenante». Tale approccio si manifesta nell’attenzione dedicata proprio alle rappresentazioni visive, che evocano stati di coscienza alterati oppure possono aprire a inedite prospettive interpretative. Di conseguenza, la fotografia non rappresenta più soltanto una scelta stilistica, ma assume i connotati di un vero e proprio itinerario filosofico.

In questo contesto, il volume di Nils Fabiansson, Ernst Jünger nelle tempeste d’acciaio della grande guerra, recentemente pubblicato dalla casa editrice Italia Storica, si rivela di grande interesse. L’opera si presenta come una raccolta documentaria arricchita da un’ampia selezione di fotografie provenienti da archivi pubblici e privati, oltre che da materiali inediti tratti dai numerosi diari, immagini dei luoghi di combattimento, mappe e disegni originali realizzati dallo stesso scrittore. Un considerevole apparato documentale che offre una prospettiva storica e geografica dettagliata, permettendo una comprensione più profonda del contesto narrato e dell’opera che, in quella fase, gli diede assoluta notorietà: Nelle tempeste d’acciaio, pubblicata in almeno sette edizioni, dal 1920 al 1978, ciascuna di esse sottoposta a modifiche e revisioni significative.

Il testo è accompagnato da questo apparato fotografico che, appunto, ne amplifica il valore documentario. Il racconto prende avvio nel gennaio 1915, quando giunge al fronte occidentale dopo un anno trascorso tra addestramenti e spostamenti e, da quel momento, descrive con precisione quasi chirurgica i preparativi per gli attacchi, le tattiche militari adottate e ogni elemento naturale o urbanistico, componendo un resoconto straordinariamente meticoloso di ogni singolo elemento.

Ma la narrazione si intreccia strettamente con il suo sguardo fotografico. La sua visione rimane glaciale, distaccata, legata a una percezione «stereoscopica», cioè alla capacità di osservare e analizzare simultaneamente il livello fisico e quello spirituale degli eventi, degli oggetti e degli esseri viventi. Jünger stesso confessò di possedere una sorta di “doppia vista”, che gli permetteva di cogliere sia i dettagli materiali che i significati più profondi. Durante la Seconda Guerra Mondiale, racconta l’episodio del bombardamento osservato dal tetto dell’Hotel Raphael a Parigi, dove si trovavano tutti gli ufficiali tedeschi. Con in mano un bicchiere di Borgogna in cui spuntavano delle fragole, descrive l’evento come uno spettacolo estetico di pura potenza, mentre gli altri corrono precipitosamente nei rifugi. Ancora una volta, non rivisita quei fatti con ordinario sentimentalismo, ma con una sorta di sguardo fotografico, mantenendo un approccio all’apparenza separato dal contesto.

Jünger era questo! Nel 1992, durante l’inaugurazione del Museo della Grande Guerra a Péronne, a chi gli chiedeva quale fosse la sua esperienza più drammatica, rispose: «Quella di aver perso la guerra». Una figura difficile da classificare, proprio come lo descrisse Bruce Chatwin, che lo incontrò negli anni Settanta e lo dipinse come estraneo alle riflessioni pastorali di Siegfried Sassoon o Edmund Blunden, privo della codardia di Hemingway, del masochismo di T.E. Lawrence o della compassione di Remarque.

Nel tono analitico e distaccato della narrazione ammette di subire l’influenza di Cesare e del suo De bello Gallico e dia ver messo ormai da parte l’ispirazione derivante da La Campagna di Francia del 1792 di Goethe. Un cambio di cifra stilistica che coincide con questa prospettiva glaciale la quale giustificherebbe – anche agli occhi di molti – la riduzione e l’eliminazione di alcuni episodi nelle varie ristampe, come nel caso di Boschetto 125 che, nel 1933, viene abbreviato di un terzo rispetto alla versione originale. Lo stesso vale per alcuni episodi personali, come una breve avventura amorosa nel 1916 con una ragazza che chiama «Jeanne d’Arc», presenti in alcune edizioni dei suoi scritti, ma eliminati in altre.

Uno sguardo distaccato, che gli consente perciò di apprezzare il paradigma fotografico, e che si riflette anche nei suoi interessi scientifici, come la passione costante per l’entomologia, che è altro elemento anomalo: «Del resto si tratta solo di un pregiudizio che durante le guerre, la caccia sottile debba essere sospesa. Al contrario essa consente all’iniziato una delle possibili assenze, anche se solo per uno sguardo sfuggente. Questo ripristina l’ordine interiore».

Nel volume di Fabiansson sono riprodotte fotografie dei taccuini o dei fogli contenenti una serie di disegni. Durante la guerra, compilò un taccuino chiamato Fauna coleopterologica douchyensis, in cui catalogò 143 specie di coleotteri trovati in trincea e che non entrò a far parte integralmente delle tempeste d’acciaio. Nel libro si menzionano 125 città e villaggi francesi e belgi, oltre a 160 nomi di persone, grazie ai quali si può costruire una mappa che non è solo quella di un teatro di guerra, ma topografia e antropologia di varia umanità. Ma fu, appunto, una ricognizione dall’espressività quasi fotografica. Fu lui stesso ad ammetterlo. Decenni dopo, si mostrò quasi sempre disinteressato a rivisitare quei luoghi (che, nel volume di Fabiansson, possiamo ritrovare nelle antiche configurazioni e in quelle più recenti afferenti a tempi più recenti), criticando il turismo commemorativo dei campi di battaglia. Già nel 1929, durante un viaggio a Parigi, scrisse: «Non provo alcun richiamo per questi luoghi, che stimolano il gusto museale del nostro tempo, reso ancora più sgradevole dai turisti americani con i loro banali ‘Here you can see…,’ proprio come accadde durante la mia visita al Forum Romanum».

Tutto ciò perché quei suoi diari e quelle fotografie avevano eternizzato un tempo e un mondo interno non più rievocabile.

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