L’Operaio in Jünger. La lettura di Alain de Benoist
Der Arbeiter, una delle opere più celebri di Jünger, nasce nel contesto del declino della Repubblica di Weimar, con l’intento di analizzare il rapporto tra tecnica e libertà all’interno di una modernità al tempo stesso seducente e disorientante. In questo scenario, l’Operaio, emancipato dalla sua classe di appartenenza, si trasforma – mentre le distinzioni sociali si dissolvono – in una Figura universale.
Due scuole di pensiero si sono avvicendate nella lunga disputa sulla traduzione del termine Arbeiter come “Operaio” o “Lavoratore”. La scelta della resa lessicale è variata nel tempo, influenzata dal contesto e dall’interpretazione desiderata. Già nel 1935, Delio Cantimori adottò l’espressione “milite del lavoro”, avvicinandola alla figura del guerriero. Andrea Anselmo, nella prefazione al volume di Alain De Benoist, L’operaio fra gli Dèi e i Titani: Ernst Jünger «Sismografo» dell’era della tecnica (che ora viene riproposto da Polemos editrice, con postfazione di Alessandro Autiero), amplia la prospettiva introducendo il concetto di “Artefice”, ritenuto più adatto a esprimere la volontà di trasmutazione alchemica insita in questa figura.
Saltiamo però a piè pari questa che, a prima vista, può apparire come una cavillosità e restiamo all’analisi di Alain de Benoist, anche perché Jünger non solo rielaborò profondamente i propri testi nel corso dei decenni, ma manifestò anche una certa indecisione riguardo ad alcuni titoli, avendo per esempio ricordato più volte che, Nelle tempeste d’acciaio avrebbe dovuto intitolarsi Il rosso e il grigio, con esplicito riferimento a Stendhal: il rosso del sangue e il grigio delle armi. Se la traduzione è importante per comprendere a fondo ogni singolo termine, è perciò ancora più utile fare riferimento direttamente ai brani di Jünger.
Partiamo da elementi assodati, come il fatto che La mobilitazione totale vada letta come una sorta di introduzione a L’Operaio. È paradossalmente l’esperienza bellica a rappresentare la svolta sul piano teoretico: è in quel contesto che «l’uniforme e il tipico si sostituiscono all’unico e individuale». Ciò avverrà grazie a un tipo di uomo che incarna l’impersonalità e che, con il suo stile anonimo e funzionale alla mobilitazione, è già emerso nelle trincee della Prima guerra mondiale. In Boschetto 125, la descrizione del comandante delle truppe d’assalto ne anticipa infatti tutti i tratti distintivi: «gli uomini che marciano alla testa dei loro uomini, quelli che maneggiano i carri d’assalto, l’aereo, il sottomarino, sono tutti dei sorprendenti tecnici: ed è da loro che lo Stato moderno si fa rappresentare in battaglia».
Una mobilitazione che è totale, perché coinvolge ogni aspetto, tanto da utilizzare il termine Interregnum per definire una fase in cui si stanno preparando forze nuove, differenti da quelle del passato. Queste forze non ricalcheranno gli antichi ordinamenti, le istituzioni o i partiti, ma apriranno le porte all’epoca dei Titani. La sensazione che ne deriva è quella di essere immersi nella temporalità nicciana, in cui i vecchi valori non sono ancora del tutto scomparsi e quelli nuovi sono solo agli inizi, ma anche in un processo che, per certi aspetti, richiama le visioni di Evola e Guénon sul Kali Yuga. L’interregno apre al nuovo, ma mantiene al contempo un legame con ciò che è stato. In questa fase, Jünger non considera la tecnica uno strumento del male, ma piuttosto l’elemento capace di facilitare il superamento dell’individualità e, di conseguenza, assumono rilevanza le forme, destinate all’annientamento per lasciare spazio alle nuove, in modo da sprigionare l’alba di un nuovo ciclo.
De Benoist sottolinea l’evidente affinità tra il concetto di Gestalt, strettamente legato alla dimensione vitale e cosmica, e la Urpflanze di Goethe, la Pianta originaria evocata dallo stesso Jünger in una lettera a Henri Plard nel 1978: «il concetto di Figura si apparenta più alla monade di Leibniz che all’idea platonica, più alla Pianta originaria di Goethe che alla sintesi di Hegel». Dunque, a leggere le codifiche jüngeriane, siamo agli albori di qualcosa di inedito. Il tempo dell’individuo è tramontato; la transizione non è percepita solo come una novità, ma come un fenomeno positivo. L’individuo di riferimento è principalmente quello borghese, la cui rapida estinzione apre la possibilità di una ricomposizione e di una trasvalutazione a un livello superiore, poiché Jünger ritiene che l’uomo esprima la massima energia quando si mette al servizio di un comando. In una prospettiva di questo tipo, anche la questione della libertà trova il suo compimento nell’adesione totale al regno del Lavoro. Nell’epoca nuova, la volontà di libertà coinciderà con la volontà di lavoro, e la libertà non sarà più determinata dal censo, dalla nascita o dalle disponibilità economiche, ma dal grado di intensità e partecipazione alla Figura dell’Operaio. Quanto più si intensifica questa adesione, tanto più emergeranno nuovi uomini capaci di trasfigurare le forme esistenti, perché il lavoro diventa il mezzo attraverso cui la Forma piega a sé il mondo.
Tuttavia, non si tratta di una stantia riproduzione del Superuomo di Nietzsche, che, a suo dire, in confronto all’Operaio appare ormai «paleontologico», come scrisse in una lettera a Walter Patt nell’agosto del 1980, perché esso è una figura titanica, il primo dei Titani a manifestarsi nel nostro tempo. È l’unico a avere un rapporto autentico con il «carattere totale del Lavoro».
Jünger sostiene che la tecnica è lo strumento attraverso cui l’Operaio si afferma nel mondo, dominandola grazie al dispiegamento totale del Lavoro e alla mobilitazione collettiva. Cosicché il singolo può cedere il passo al tipico, all’uniforme, incarnato dall’Operaio quale portatore di nuove strutture.
Ogni manifestazione del mondo contemporaneo volta alla strutturazione della realtà, ogni impiego di energia, si impone su ogni sfera sociale e, proprio per questa ragione, non può essere ricondotta a una classe specifica: «il tempo del pugno, del pensiero e del cuore, la vita che scorre giorno e notte, la scienza, l’amore, l’arte, la fede, il culto, la guerra, tutto è Lavoro; ed è Lavoro anche la vibrazione degli atomi, e la forza che muove le stelle e i sistemi solari». La volontà di potenza si manifesta attraverso il Lavoro, e questa egemonia (Herrschaft) è «oggi possibile solo come rappresentazione della Figura del Lavoratore».
Siamo nel pieno del “realismo eroico”, fase in cui l’uomo raggiunge un tale livello di impersonalità da non essere più asservito alla tecnica, al marxismo, al mondo borghese o alle vecchie religioni. In questa prospettiva, e di fronte all’ascesa planetaria della Figura, iniziano a emergere i primi segni di un abbandono di ogni visione nazionalistica. L’uomo si libera dagli ultimi residui del passato, incluso il nazionalismo, nonostante alcuni sprovveduti abbiano voluto interpretare l’adozione del termine Arbeiter come un implicito legame, anche per assonanza, con la sigla del Partito Nazista (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei). Il nazionalsocialismo viene infatti definito «pensiero museologico», caratterizzato da uno «stile plebeo» e, soprattutto, molto distante dalla sua percezione del mondo, soprattutto per la sua caratterizzazione razziale, così come già anticipato nel 1926: «La parola razza comincia a diventare altrettanto, penso, nell’uso attuale, quanto la parola tradizione».
Jünger non intende altro che ribadire il concetto secondo cui la tecnica rappresenta il vettore della mobilitazione dell’Operaio ed è l’unica forza in grado di conferirgli il dominio sul mondo. L’Operaio riesce a controllare la tecnica proprio attraverso l’attuazione integrale del Lavoro e un movimento collettivo di mobilitazione. In questo modo, l’individuale e l’originale vengono soppiantati dal tipico e dall’omogeneo, e l’irripetibile lascia spazio all’Operaio «che occupa il proscenio come tipo e portatore di strutture tipiche». Anche lo stesso Niekisch riconoscerà che questo è il punto in cui Jünger si spinge al massimo nel concepire un’eventuale rivoluzione di natura collettiva, prima di intraprendere, solo qualche anno più tardi, un percorso più intimo e personale.
Questa trasformazione si sviluppa attraverso una fase intermedia articolata in tre livelli: alla base, la massa, intesa come potenziale umano passivo; al centro, il “tipo attivo”, ovvero l’individuo che cerca di emergere dal caos informe; al vertice, il tipo che incarna pienamente l’essenza assoluta del Lavoro. Una suddivisione che, sempre Niekisch, interpreta come una riformulazione della classica tripartizione prussiana. Tuttavia, se per Niekisch la collettivizzazione – come attuata in Russia – rappresenta il mezzo per governare la tecnica, non vede in questo inedito e bizzarro individualismo la chiave di un nuovo processo, pur riconoscendo, alle riflessioni jüngeriane, affinità sorprendenti con il marxismo. Jünger aveva fatto parte, per un periodo limitato, della Società per lo studio dell’economia di piano in Russia e aveva analizzato i piani quinquennali di sviluppo, ma, considerando il progresso storico indipendente dai fattori economici, non poteva accogliere sin dalla fonte i principi marxisti. Coglie invece la dimensione metafisica del lavoro, andando oltre la semplice configurazione sociologica. In realtà, dietro questo interesse per le vicende del comunismo sovietico, c’è una verità ancora più semplice: erano gli anni in cui le alte gerarchie naziste esercitavano forti pressioni affinché prendesse parte attiva alla loro politica, e quella fu quasi una provocazione.
A questo punto, possiamo chiudere il cerchio anche con la lunga disputa sulla resa del termine Arbeiter dal momento che De Benoist rileva come, con la mobilitazione totale, le Figure del Lavoratore e del Soldato si siano fuse in un’unica entità, nonostante il termine “Soldato” non vada inteso in senso generico, poiché Jünger si riferisce a una tipologia precisa, quella del Guerriero. In Eumeswil, molti decenni dopo, distinguerà il Guerriero, mosso da intuizione e coraggio e vicino all’anarca, dal Soldato, che segue la catena di comando e rimane legato alla struttura istituzionale.
Per concludere: questa è la fase in cui Jünger guarda alla tecnica in una chiave quasi positiva, in netto contrasto con il fratello Friedrich. Quando tornerà sull’argomento in Maxima–Minima – opera che precede analiticamente L’Operaio – mostrerà una posizione già più vicina a Friedrich, arrivando infine a elaborare un modello metapolitico che culminerà poi nel Saggio sul dolore.