Mi capita spesso, tornando a vecchi libri – romanzi o saggi – di scoprire significati che in passato mi erano sfuggiti, forse per inesperienza o per la naturale immaturità della giovinezza.

Sarà una banalità ma credo succeda anche a voi: passaggi che allora parevano marginali oggi si rivelano ricchi di profondità, mentre pagine un tempo considerate decisive ora mi sembrano secondarie, quasi prive di rilievo. In realtà il libro non cambia; cambia il lettore. Ogni nuova età, ogni nuova fase della vita, diventa una lente diversa attraverso cui interpretarlo. Banalità anche questa. Eppure ci sono autori che, fin dal primo incontro, lasciano un’impronta nitida, capace di resistere al tempo. Poco importa se li si legge da ragazzi, anni dopo o ancora in età adulta: le intuizioni restano pressoché identiche.

A me sta accadendo con Seneca. In questi giorni lo sto rileggendo con grande intensità e ritrovo le stesse intuizioni di un tempo, come se la mia comprensione giovanile fosse stata già autentica e completa.

Naturalmente non è un merito personale. È qualcosa che abbiamo sempre saputo, e ogni tanto facciamo finta di dimenticarlo: è la forza dei classici, capaci di entrare nelle nostre vene, di toccare le emozioni più intime e, al contempo, di radicarsi nella mente con una profondità che pochi altri autori possiedono.