Chateaubriand e l’aspirazione alla libertà

Riporto di seguito il paragrafo dedicato a François-René de Chateaubriand tratto dal mio volume Il pensiero ribelle
François-René de Chateaubriand (1868-1848), tanto lontano dal tempo e dall’epoca di cui discorreremo in queste pagine, può allora divenire paradigma di un lavorìo intellettuale sinuoso, non completamente etichettabile ma che può porsi come premessa del tutto. Sarebbe stato infatti molto più semplice prendere le mosse dal pensiero controrivoluzionario, oppure tracciare le coordinate del primo liberalismo che, in maniera del tutto disorganica, si pone prima su un fronte liminare agli antimoderni, per poi – lungo il Novecento – navigare in campo aperto e solcare i mari di un pensiero progressista, o almeno progressivo, che tutto ricomprende.
Chateaubriand, pur essendo particolarmente lontano nel tempo, è tuttavia simbolo di questo spaesamento, di una circumnavigazione che tocca l’antimodernismo, il liberalismo, le nuove istanze di natura sociale, istituzionale e politica che sembrano il più delle volte tessere qualche impercettibile connessione per poi disgiungersi e scontrarsi.
Per comprendere l’evoluzione di un tempo e di un’epoca, sarà conveniente intercettare opere complesse che ne segnano l’alba, proprio come il suo Saggio sulle rivoluzioni. Fondamentale per decrittare le posteriori e molteplici derivazioni di un pensiero anti-progressista che subisce però, più o meno indirettamente, le influenze filosofiche del periodo. Dai furori illuministici alla lezione di Rousseau, che catturò Chateaubriand negli anni giovanili, quest’opera è infatti un’analisi spietata di quei fermenti culturali e sociali ed è costruita e scritta da un pensatore nel quale esigenza intellettuale e stile letterario fanno il paio con un’inquietudine di tipo religioso.
Non è un caso se, in una edizione italiana dell’opera, sulla copertina risalti La libertà che guida il popolo di Eugène Delacroix, quadro che fa riferimento alla Rivoluzione di luglio del 1830, e che dà anche il segno della difficoltà di definire in maniera rigidamente compatta una traiettoria di pensiero e uno studioso che non pochi accusarono di ambiguità anche rispetto all’Illuminismo. Paradigma di quanto accadrà nel Novecento dove movimenti modernisti si rifaranno alla classicità e, al contrario, fenomeni cultural-politici tesi a difendere le memorie e le tradizioni del passato guarderanno con benevolenza e favore le fascinose sollecitazioni del progresso. Ciò accade perché Chateaubriand indaga la realtà senza il velo ipocrita dell’ideologia. Non nasconde le colpe di un potere monarchico divenuto nel tempo sempre più opprimente e di una aristocrazia involutasi negli intrighi di potere ma, al contempo, non assolve chi incautamente esalti formulazioni astratte di democrazia ed egualitarismo mediante l’irrefrenabile pulsione utopica che spinge per la società perfetta, nonostante ne sia, più o meno inconsapevolmente, succube. Lontano dalle astrazioni giacobine, di cui il Saggio ne testimonia le conseguenti tragedie nelle applicazioni reali, si muove facendo del realismo politico la sua musa ispiratrice, convinto come Montesquieu dell’inscindibile connessione tra le istituzioni politiche, le particolarità e le storie dei singoli Paesi. Critico nei confronti dei Lumi e con una peculiare lucidità nel leggere i fatti storici pari solo a quella di Edmund Burke, si batte per la restaurazione della monarchia ma contro ogni ipotesi assolutistica, tanto da far scartare l’ipotesi di uno Chateaubriand controrivoluzionario tout-court. Una traiettoria tanto sinuosa per cui Franco Cardini ne ha dovuto sottolineare contiguità sia con le Considérations sur la France di Joseph de Maistre che con le Reflections on the Revolution in France di Burke.
In realtà, egli legge la complessità del periodo in maniera del tutto libera. Restauratore ma non nostalgico, tantomeno reazionario, lucido e rigoroso nel tener sotto controllo l’intero quadro storico di riferimento, ma convinto della inutilità per una società progredita di una forma di governo come quella repubblicana, forse più utile per comunità e società ancora giovani. Gli sarebbe invece gradita l’ipotesi monarchica proprio perché capace di adattarsi, grazie ad un potere esecutivo energico e riconosciuto, al sistema corrotto dei popoli civilizzati e progrediti.
Paradossalmente, invece, sarebbe tipico del progresso infiacchire la società rendendola caotica e disordinata moralmente: e in questi deficit strutturali, Chateaubriand trova la spinta necessaria per rafforzare l’ipotesi monarchica.
La sua vita, nonostante le origini nobili facessero prevedere esiti più tranquilli, fu burrascosa e tortuosa così come l’opera, tanto da far scrivere ad un quattordicenne Victor Hugo, sul suo diario dell’epoca: «Voglio essere Chateaubriand o nulla». Breve carriera militare e poi in giro per l’America del Nord, dove furono pensate novelle come Les Natchez, Atala e René. Un viaggio decisivo che stimola la fantasia di letterato ma ancor di più fornisce strumenti per comprendere gli scombussolamenti politici europei. L’arresto di Luigi XVI, il rientro in patria a fianco dei lealisti, l’esilio di sette anni in Inghilterra fino al 1800, e poi ambasciatore di Napoleone a Roma, anche se l’idillio dura poco.
Con il pamphlet Buonaparte e i Borboni, scritto fra l’inverno e la primavera del 1814, scopre le carte schierandosi apertamente con la Restaurazione, per preservare «l’esperienza e i costumi dei nostri padri» contro chi vuole fondare «su una ragione incerta una società senza passato e senza avvenire». Ma c’è di più. Questo libello dotato di impressionante capacità profetica riesce ad intravedere, attraverso la cornice napoleonica, la costruzione del mito del dittatore che tanta fortuna riscuoterà nel Novecento. E non solo ne abbozza i contorni ma li inquadra con precisione quasi didascalica.
Per decifrare Chateaubriand bisogna però tornare al Saggio sulle rivoluzioni, che rappresenta l’aspirazione alla libertà e contemporaneamente – come in un contraddittorio ma esaltante cortocircuito – anche la consapevolezza che essa non si raggiunga né con un cieco assolutismo né con una rivoluzione cruenta e dai risultati ancora più tragici come quella francese, nonostante poi da essa trarrà spunti positivi. L’assolutismo è sepolto e bisognerebbe dare consapevolezza a concreti e reali aneliti di libertà che tramite la Rivoluzione si sono svelati in ogni lembo di società, nobile o plebea. Tenta allora, come Vico, un raffronto tra i fatti del passato: tra la rivoluzione dell’89, cinque rivoluzioni del mondo antico e sette del mondo moderno («l’uomo, debole nei suoi mezzi e nel suo spirito, non fa che ripetersi senza posa: percorre sempre lo stesso cerchio, cercando invano di sortirne») ma interpreta questa ciclica frenesia rivoluzionaria come una mai sopita inquietudine religiosa. Così come puntualmente si ripresentano nella storia gli aneliti rivoluzionari, allo stesso modo è sicuro che si possa ristabilire il potere monarchico, magari emancipato sul modello costituzional-parlamentare inglese. Spiegazione fondamentale che rappresenta un punto di svolta per la pubblicistica anti-rivoluzionaria e che soprattutto lo distanzia da una visione rigidamente controrivoluzionaria. Riconosce nei mali e nei deficit della società moderna gli esiti negativi delle dottrine elaborate durante tutto l’arco del XVIII secolo, che avevano portato al totale disprezzo delle fede religiosa, e apre un doppio fronte capace di ridare dignità al cristianesimo e smontare i miti illuministici. In lui si fondono letteratura e anelito religioso, o meglio ancora, fede cristiana e analisi politica: «Non si trattava di riconciliare con la religione i sofisti, bensì la gente da essi traviata. L’avevano ingannata col dire che il cristianesimo era un culto nato in seno alla barbarie, assurdo nei dogmi, ridicolo nelle sue cerimonie, nemico delle arti e delle lettere, della ragione e della bellezza; un culto che aveva continuamente versato il sangue, incatenato gli uomini e ritardato la felicità e i lumi del genere umano; si doveva dimostrare che, al contrario di tutte le religioni mai esistite, la religione cristiana è la più poetica, la più umana, la più favorevole alla libertà, alle arti, alle lettere; che il mondo moderno le deve tutto, dall’agricoltura alle scienze astratte; dagli ospizi per gli infelici fino ai templi costruiti da Michelangelo e decorati da Raffaello».
Analisi che, pur non inerpicandosi tra raffinatezze teologiche, riescono a leggere i fatti della storia descrivendoli con pregevole tono poetico. Così accade che elogi la religione cristiana più di quanto sia lecito attendersi, perché per lui nulla di positivo è possibile aspettarsi da chi rifiuta queste tesi. La furia iconoclasta non può distruggere la bellezza della religione («si doveva dimostrare – scrive sempre nel Genio – come niente sia più divino della sua morale, niente più bello e solenne dei suoi dogmi, della sua dottrina e del suo culto; occorreva dire come essa favorisca il genio, purifichi il gusto, sviluppi le passioni virtuose, dia vigore al pensiero, offra nobili forme allo scrittore e perfetti stampi agli artisti»). La sua morale non sarà riconducibile all’apologia della ragione ma ad un connubio di libertà e fede. Un intrecciarsi continuo di inestricabili e positive contraddizioni che ci fa intendere quanto il tema della libertà e quello della difesa dei valori e dell’ordine tradizionale siano sottilmente connessi.
