Jean Paul Sartre e la dinamica rivoluzionaria

Riporto di seguito il paragrafo dedicato a Jean Paul Sartre tratto dal mio volume Il pensiero ribelle
Nelle tribolazioni e negli sbandamenti della borghesia del dopoguerra vanno segnalate anche non poche figure di maître à penser che assurgono a guide morali, civili, sociali e politiche. Una di esse corrisponde all’immarcescibile Jean-Paul Sartre (1905-1980), un volto e un’opera che, ad intervalli regolari, ritorna all’attenzione del grande pubblico. Sparito da qualche anno da certi teatri sperimentali e da noiosi convegni, quando fa capolino, obbliga il dibattito culturale ad una inversione di marcia. L’icona dell’ideologia, l’incarnazione dell’intellettuale organico, nonostante in alcuni brevi tratti della vita si fosse sforzato di venir fuori dalle secche della pura utopia (capitò quando, per rispondere agli attacchi dei cattolici e dei marxisti, provò a dare vita al Rassemblement démocratique révolutionnaire, una improbabile terza forza politica da opporre al blocco occidentale e a quello sovietico), è stato sistematicamente riproposto con tutta la sua forza comunicativa alla nostra attenzione.
Per chi, invece, non si è fatto abbindolare dai suoi contorti percorsi culturali, Sartre rimane il «compagno di strada» dei comunisti francesi, che raggiunse l’apoteosi con alcuni articoli pubblicati tra il 1952-1954 che indussero Camus e Merleau-Ponty a definire la sua posizione come «ultrabolscevismo». Le parziali abiure come quelle del 1956, di fronte alle ammissioni del rapporto Kruscev al XX congresso del Pcus e alla repressione della rivolta in Ungheria che lo portarono alla pubblicazione dell’articolo Il fantasma di Stalin, non segnarono un definitivo distacco. La tormentata e lunga riflessione sul marxismo che diede luogo a Questioni di metodo, uscito su una rivista polacca nel 1957, imbastiva infatti improbabili giustificazioni teoriche in difesa del marxismo: «Tuttavia bisogna intenderci: questa sclerosi non corrisponde a un invecchiamento normale. È prodotta da una congiuntura mondiale di tipo particolare; lungi dall’essere esaurito, il marxismo è ancora giovanissimo, quasi nell’infanzia: ha appena cominciato a svilupparsi. Esso rimane dunque la filosofia del nostro tempo: è insuperabile perché le circostanze che l’hanno generato non sono ancora superate. I nostri pensieri, quali che siano, non possono formarsi che su questo humus; devono contenersi nella struttura che esso fornisce loro o perdersi nel vuoto o retrocedere».
La militanza ideologica non si interruppe mai e rimase incisiva anche quando sembrava intraprendere percorsi paralleli. Basti ricordare le vicende che videro protagonista Brasillach. Dopo la condanna, moltissimi intellettuali levarono la voce in favore di una grazia. Mauriac, pur ritenendo giusta la condanna, giudicò sbagliata l’esecuzione. Altrettanto fece Albert Camus. Solo Sartre si disse convinto della giustezza di quella sentenza perché, in realtà, egli rimaneva l’intellettuale che sanciva il totale asservimento della cultura al potere politico ma, ancor di più, all’ideologia: si schierò contro la politica francese per i fatti d’Algeria, fece parte del tribunale Russell sui crimini americani in Vietnam e poi condivise le tensioni e gli ideali del movimento studentesco. Così, dai contestatori ai militanti, dagli anarcoidi che rivendicavano la moralizzazione della politica a quelli organici, quasi tutti gli intellettuali furono coinvolti e ammaliati dal verbo sartriano.
Tra i pochi, solo Aron, peraltro oggetto di accuse violentissime da parte dei sartriani, riuscì a tirarsi fuori da questo circolo vizioso, denunciando tutti i deficit di quella che era diventata una vera e propria moda pubblicando, a metà degli anni ‘50, l’Opium des intellectuels. Il saggio più severo sugli intellettuali organici per la prima volta obbligati ad analizzare nel profondo la disastrosa situazione della Polonia, dell’Ungheria, della Germania dell’Est, dell’Urss e in cui finalmente si mostravano le crepe di un perverso connubio tra ideologia e cultura militante: «Il concetto di rivoluzione, il concetto di sinistra, non cadrà mai in disuso. È l’espressione di una nostalgia che durerà quanto l’imperfezione intrinseca nella società umana e il desiderio degli uomini di riformarla». Ed il Sartre che pur sempre si commemora («l’agité du bocal» lo definì Céline) è anche quello che vuole rinnegare il suo pubblico, quello borghese (da cui però riceve lauti compensi) perché si sente vicino alle avanguardie proletarie, al castrismo, al maoismo, fomentando un suo personale utopismo per «l’uomo nuovo e migliore», come scrive nella prefazione dei Dannati della terra di Franz Fanon, in cui condanna all’unisono capitalismo, colonialismo e stalinismo.
Con il ‘68 ritiene di aver trovato una via d’uscita. Avvedutosi dei danni del comunismo russo ma non volendo ammetterlo, si rifugia nel mito tutto giovanilistico della rivoluzione studentesca, diventando uno dei massimi esponenti di una stagione di contraddizioni e di violenze. L’episodio simbolico è quello di Billancourt dove, fra le altre cose, affermò, e con spietato cinismo, di non voler parlare dei gulag e della situazione sovietica perché «non bisogna turbare gli operai della Renault». Su questo punto si consumò la rottura con Camus perché, pur riconoscendo le contraddizioni del sistema sovietico, continuava imperterrito a ritenere nemico principale il capitalismo e l’America, chiudendo gli occhi su ciò che c’era di marcio ad Est.
