È più utile immergersi direttamente nell’opera di un filosofo, oppure dare la precedenza alla cosiddetta “letteratura secondaria” che tende, però, a riorganizzarne e a modificarne le intenzioni originali?

Col libricino di Benedetto Croce dal titolo L’intuizione pura e il carattere lirico dell’arte (Luni editrice) si ripropone in parte il dilemma dal momento che il tema interseca larga parte della sua produzione che avrà incroci e traiettorie complesse, nonostante sia poi lo stesso filosofo in una fase successiva a scioglierlo: «i commentatori e gli espositori sono per solito di gran lunga più oscuri dell’autore commentato». In lui, più che per altri filosofi, il binomio pensiero filosofico e vita è infatti reale ed è su questa trama che ne va decifrata la teoria.

Queste pagine sono il resoconto del terzo Congresso Internazionale di Filosofia tenutosi ad Heidelberg il 2 settembre 1908 in cui, se per un verso approfondisce i temi affrontati in Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, pubblicata sei anni prima, dall’altro dà il via ad una serie di integrazioni per avviare revisioni sistematiche sull’intera questione.

Vita sensibile e logica sono connesse tanto che, nel corso degli anni, il filosofo vi ritornerà sopra più volte nella necessità «di approfondire e ampliare i principi prima stabiliti» e, in parte, depotenziare anche la massiccia mole di letteratura secondaria. Ed è infatti proprio nella conferenza di Heidelberg che inizia ad essere distinguibile ogni suo termine di raffronto e ad emergere la tesi per cui l’arte scaturisca autonomamente dall’uomo: «L’intuizione pura non producendo concetti, non può rappresentare se non la volontà nelle sue manifestazioni, ossia non può rappresentare altro che stati d’animo. E gli stati d’animo sono la passionalità, il sentimento, la personalità, che si trovano in ogni arte e ne determinano il carattere lirico». Un tratto che si svela un anno dopo quando, in una lettera inviata ai coniugi Vossler che lo avevano ospitato nei giorni della conferenza, confesserà di aver finalmente «compreso, circa lo stato della filosofia ai nostri giorni, cose che non si apprendono dai libri».

Di questa relazione ne scrissero in tanti tra cui Giuseppe Antonio Borgese affermando che «dei congressisti italiani il più glorioso, ha solo 42 anni». Nonostante tristi vicende private e carichi di lavoro eccessivi che gli fecero ammettere di navigare ormai tra «filosofia e neurastenia», «malessere e tristezza», «pessimo umore e travaglio», non si trattò solo di un lavoro propedeutico per analisi più approfondite perché il testo per la conferenza aveva iniziato a vergarlo ben quattro mesi prima.

Come annota Giancristiano Desiderio, che cura il volume anche con un’ampia prefazione, l’intuizione come aurora dello spirito fu lo sbocco terminale per un lavoro in cui Croce non solo impedisce ogni fuga nella trascendenza ma concepisce «l’intera vita umana come un perenne lavoro in cui il pensiero ha per forma e per contenuto la storia da cui, di volta in volta, si libera e si dà in pasto».

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