In Lazio è stata inaugurata una Bio-banca per conservare i tessuti ovarici e permettere  alle donne – ma anche alle adolescenti e alle bambine –  di non sacrificare la propria fertilità in cambio delle cure antitumorali.

Chemioterapia e radioterapia riducono il numero degli ovociti, quel patrimonio di cellule germinali che ogni donna riceve in dotazione alla nascita e che, a differenza delle altre cellule, non si riproduce nel corso degli anni. Fra le mie conoscenze c’è una giovane donna, Tamara, che quando aveva poco più di trent’anni e non aveva avuto ancora figli, era stata colpita dal tumore al seno.

Viveva a Londra, quando le è stato diagnosticato il cancro si era appena sposata. I medici le avevano illustrato il protocollo classico – e quindi il più rassicurante e ultratestato per quel periodo –  nei casi di carcinoma come il suo: prevedeva chemio, radioterapia e cure ormonali. Lei, che desiderava ardentemente un figlio, decise di scartare le terapie più pesanti: dopo l’intervento scelse di fare solo la radioterapia.

Ricordo il suo dolore e insieme la sua determinazione. Si era messa contro tutti i familiari, i quali avrebbero voluto che lei rinunciasse a diventare madre per curarsi come si deve.

È stata una donna coraggiosa, dopo pochi mesi ha avuto il figlio che desiderava, sta bene e si sottopone regolarmente ai controlli.

Per questo, quando ho letto della Bio-banca del Lazio ho pensato a lei, a Tamara. Progetti come questi sono davvero grandiosi.

Il 70 per cento delle donne colpita da cancro sotto i 40 anni diventa sterile dopo le terapie. La banca del tessuto ovario è  nata all’interno della banca del tessuto muscolo-scheletrico del Lazio ed è frutto di un accordo fra la Regione e l’istituto dei tumori Regina Elena di Roma (i 400mila euro necessari sono stati stanziati dal ministero). Permette di conservare i frammenti di tessuto ovarico contenente gli ovociti in appositi contenitori di azoto liquido (il procedimento si chiama anche crio-conservazione perché sfrutta le proprietà del freddo).

Si tratta di un’autodonazione del tessuto, la donna si sottopone al prelievo prima di cominciare le terapie e “dopo” ritorna fertile. Secondo i medici la ripresa della funzionalità ovarica è del 90-100%  compatibilmente con l’età della paziente e il numero di follicoli presenti al momento del prelievo.

Il tessuto ovarico è prelevato in laparoscopia, trasportato in mezzi di coltura in laboratorio e quindi criopreservato in contenitori di azoto liquido a – 196°C fino allo scongelamento e al successivo reimpianto.

“Fino ad oggi l’unica possibilità che avevano le pazienti con questo tipo di problema era la crioconservazione degli ovociti e la successiva procreazione medicalmente assistita – ha spiegato il consigliere Roberto Buonasorte del gruppo Destra che assieme a Francesco Storace ha presentato la mozione sulla Bio-banca approvata all’unanimità dal consiglio regionale – Secondo noi è necessaria un’alternativa gestita da un ente pubblico per evitare che le donne siano in balìa di un mercato privato condizionato da interessi economici”.

La Bio-banca di tessuto ovarico del Regina Elena di Roma è la terza in Italia dopo quelle di Palermo e Torino

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