Con l’emergenza coronavirus (Sars-CoV-2) i governi stanno dimostrando un’efficace organizzazione. Scattato l’allarme infettivo, la risposta è stata pronta. È cosa buona. È segno di unità. In tempi brevi si sono eretti i cordoni sanitari, si è valutato di chiudere le scuole, le università, i centri sportivi e di fermare alcuni mezzi di trasporto.

Le direttive arrivano dall’alto, come si suol dire. Davanti a un’ordinanza del sindaco o del ministero “chi sta sotto” obbedisce. Così, anche quei presidi o quei medici che valutino i provvedimenti eccessivi o inutili, li rispettano. Sono le regole delle comunità. E la misura è dettata dalla prudenza, quella che ci fa pensare: “Meglio non rischiare”.

Si capisce allora che tutto ciò ha una finalità burocratica. Se potessimo raccontare questa impresa con un’immagine, diremmo che l’Italia sta costruendo una fortezza e che i telegiornali ne descrivono minuziosamente i mattoncini.

Ma la malattia è altro.

Vero è che in ogni roccaforte compaiono piccole falle: c’è chi è stato a Wuhan nei mesi antecedenti la scoperta del primo caso; sono stati bloccati i voli dalla Cina ma non i passeggeri; i negozi e i ristoranti restano aperti e i virus viaggiano anche con le persone asintomatiche, per citarne alcune. Queste falle sono come il fondo di un utensile bucherellato: ci fanno capire che la nostra salvezza dipende proprio dalla nostra impotenza.

Non possiamo controllare tutto. Quando ne diventiamo consapevoli diventiamo anche più sereni.

Quindi, analizziamo la “malattia” evitando di farci angosciare dalla notizia delle misure di contenimento che abbiamo visto essere solo la cornice. L’invito è quello di cercare risposte “per noi”.  Comportiamoci da giornalisti, non si abbia paura di rivolgersi a più fonti. Proprio come se dovessimo affrontare una malattia che ci riguarda e non un gigantesco spettro dai contorni nebulosi. Ad esempio leggiamo il parere dei medici dell’Anpas. Qui.

Oppure l’ottimo e documentato articolo di un medico che stimo, Roberto Gava, qui. L’autore illustra ciò che possiamo fare, ciascuno con la proprie fragilità, pur tenendo presente che molti aspetti del nuovo virus sono ancora sconosciuti.

La prima cosa che va detta è che siamo il Paese che sta registrando più casi di persone infette dopo la Cina perché siamo l’unico Paese europeo ad aver avviato così tanti controlli microbiologici. Ma avere contratto il virus del Covid- 19 (la malattia provocata dal virus) non significa che si è a un passo dal morire.

La mortalità.

Le sette persone morte nel nord Italia erano anziane e avevano co-morbilità come tumori terminali, insufficienze renali e sofferenze respiratorie. Se si è valutato che questi decessi sono dovuti al coronavirus significa che i tamponi sono rimasti a disposizione della comunità scientifica. E che presto qualcuno li utilizzerà per chiarire se a provocare il decesso è stato proprio il coronavirus, oppure qualche altro patogeno come avviene in oltre il 40% delle polmoniti da coronavirus umani. (Gaunt et al, 2012; fonte: professor Stefano Petti, epidemiologo delle malattie infettive).

Le polmoniti.

In Italia si verificano dai 150.000 alle 180.000 casi di polmonite all’anno. Le forme più gravi sono quelle batteriche, non quelle virali (Sterrantino et al., 2015; fonte: professor Stefano Petti). Ogni anno 4.000 persone muoiono di polmonite in genere batterica. (Viegi et al, 2006; fonte: professor Stefano Petti).

“In Cina, al contrario che nel nostro Paese dove le malattie infettive sembrano relegate ad un ruolo marginale, le polmoniti sono tra le prime dieci cause di mortalità, con 200.000 decessi stimati all’anno (Zhu et al, 2019; fonte: professor Stefano Petti).

Cliccate invece qui per vedere quante sono le vittime dell’influenza e delle forme parainfluenzali, 300-400 persone all’anno.

Il virus.

Si stima che il 2% della popolazione sia portatore sano di un coronavirus e che un coronavirus sia stato isolato nel 5-10% delle infezioni respiratorie acute (Gaunt et al, 2012; fonte: professor Stefano Petti).

Conclusioni.

Il fatto che il Paese risponda bene a un’emergenza non significa che ci verrà la polmonite. E quand’anche dovessimo ammalarci, non è detto che accada in modo grave, qualcuno potrebbe contrarre il coronavirus e non accorgersene: insomma, visti i tanti “se” non ha senso che ci si comporti da condannati.

Occupiamoci del nostro presente, l’unico tempo da vivere.

Scrive un autore argentino, si dice fosse Jorge Louis Borges: “Se potessi vivere di nuovo la mia vita prenderei poche cose sul serio … Se potessi tornare indietro, mi rilasserei di più, correrei più rischi, sarei meno igienico. […] Mangerei più gelati e meno fave […]  avrei più problemi reali e meno immaginari […]
Se potessi tornare indietro cercherei soltanto momenti buoni (Da “Istanti”).

 

 

 

 

Tag: , , ,