E dopo l’Oms liberateci dal sacco nero
Se le cose non cambieranno chi muore oggi in ospedale rischia di ricevere un test Covid al posto dell’Estrema Unzione.
È la struttura a decidere, il direttore di reparto vara le regole che valgono fino al capezzale, ognuno fa le sue (l’anarchia legislativa in materia di Covid è un lascito della pandemia).
Con un test positivo inizia lo scempio, prima che sul corpo sulla psiche: il paziente che ha ancora sporadici barlumi di consapevolezza è totalmente isolato. Non riceve visite, nè attenzioni proprio nel momento in cui ne avrebbe più bisogno.
Oppure, come è accaduto la prima settimana di gennaio all’ospedale Mauriziano di Torino, appena deceduti si finisce nel sacco nero. E qui l’assurdità si fa più incomprensibile: un anziano positivo al Sars-Cov-2 è stato vegliato dalle figlie fino all’ultimo ma poi il corpo, considerato infetto secondo protocollo del 2020, è stato sigillato in un sacco e tutti zitti che queste sono le regole.
La famiglia è stata costretta a rivolgersi a un avvocato, e grazie al Comitato Fortitudo, ha potuto ricevere le spoglie del congiunto.
Un episodio simile, lo stesso mese, è accaduto all’ospedale di Velletri e chissà di quanti altri non ne è giunta notizia.
Ci faccia riflettere anche il resoconto di Fabio Zanchi, uscito sulle cronache nei giorni scorsi. Il collega è rimasto sconvolto dalla sciatteria con cui sono trattati i corpi dei defunti all’Humanitas di Milano ed io sono tre anni ormai che non riesco a ripensare senza rabbia a mia suocera avvolta dalla plastica nera al San Martino di Genova.
Parliamo di ospedali del Nord Italia in cui operano fior di professionisti e da cui trapelano solo notizie apparentemente confortanti, le strutture si digitalizzano, l’AI velocizzerà i controlli, le diagnosi saranno più dettagliate, tutto splendido, ma quando esaleremo l’ultimo respiro – e capiterà a ognuno di noi – che fine faranno le nostre spoglie? Perché il trapasso deve coincidere con la trasandatezza?
Da dove abbiamo ereditato questa mentalità? O meglio: quando sono cambiate le basilari attenzioni, figlie di una profonda cultura di rispetto? Perché siamo arrivati ad accettare simili profanazioni e quando abbiamo smesso di vigilare?
La morte, che è forse l’unica certezza della vita, è sempre più allontanata dalla nostra quotidianità. Ma fingere che non esista è un guaio. Si vive senza più osservare la vecchiaia, dovremmo invece contemplarla perché essa è il nostro destino (a meno che non ci colga il malore improvviso…).
Dovremmo renderci conto che il corpo avvizzisce, che la mente perde vitalità, che la carne si trasforma perché nessuno a questo mondo ha potuto evitare il destino dell’umanità, né col botulino, né con l’intelligenza artificiale o con qualche altro artificio.
Se la morte non è più sacra perde sacralità anche la vita.
Perciò, chiediamo al governo di trasmettere valore sul fine vita. Si potrebbe inserire una postilla, quando si chiede il consenso alla donazione degli organi al momento di rifare la carta d’identità: acconsento alla donazione purché il trapasso avvenga con il dovuto rispetto. E ognuno possa specificare in cosa consista il riguardo delle proprie spoglie.
Intanto il governo Meloni sta ragionando su come chiamarsi fuori dall’Oms: si spera infatti che le ottime ragioni per abbandonare quella che è diventata un’organizzazione privata che si muove in mancanza di trasparenza diventi Legge, come anticipato della Lega. Se siamo sempre stati amici degli Usa da accettare tutte le missioni di guerra (quindi da condividerne anche i lati peggiori), a maggior ragione ora seguirne le orme porterebbe solo vantaggi all’Italia.
In primo luogo sull’autonomia decisionale e poi sull’economia, i 100 milioni di euro versati annualmente gioverebbero alla sanità pubblica e, magari le briciole, migliorerebbero anche le camere mortuarie.
Un sentito grazie ai senatori che hanno saputo promuovere e documentare il provvedimento.