Si sente spesso parlare del “mondo di domani”. All’inizio della pandemia si predicava un celere ritorno alla normalità, ma oggi, a due anni dal primo lockdown, in molti hanno preso consapevolezza che nulla sarà più come prima. Dobbiamo dunque aspettarci trasformazioni radicali, a partire dalla nostra quotidianità e dalle nostre abitudini.

Non parlo certo di “un mondo nuovo” sia esso utopico o distopico ma di qualcosa di diverso dal “mondo di ieri”, quello che abbiamo conosciuto e a cui siamo abituati. La pandemia scatenata dal Covid-19 ha infatti aperto interrogativi inquietanti sull’evoluzione in sé del contagio virale, sconosciuto nelle sue origini e per il quale manca ancora una cura efficace, ma anche sugli effetti politici, economici, sociali con i quali dovremo confrontarci anche una volta terminata l’emergenza sanitaria.

La pandemia rappresenta un’accelerazione della storia, destinata, come tutte le crisi storiche del passato, a produrre cambiamenti che, in molti casi, saranno da considerare il punto d’arrivo di tendenze e processi che erano già in atto. Questo per dire che il futuro si radica sempre nel passato e nel presente, soprattutto quando si parla della sfera politica (nazionale e internazionale) ed economica.

La sindrome complottista cui stiamo assistendo ormai da mesi, guidata dal movimento contrario ai vaccini e al green pass, non è che la concretizzazione di una tensione prodottasi a livello sociale e internazionale negli ultimi anni.

Come ha sapientemente spiegato Alessandro Campi, docente di Scienza politica all’Università di Perugia, in tempi di crisi il bisogno pressante di dare un senso a fenomeni che non si riescono a spiegare nella loro complessità lascia campo libero agli “imprenditori del caos” che, agevolati dalla forza propulsiva di strumenti tecnologici facilmente accessibili, rispondono a una necessità di rassicurazione attraverso l’individuazione di capri espiatori.

Una situazione che non ha fatto che aggravarsi a causa di una classe politica che non si è dimostrata all’altezza di fornire ai cittadini le giuste chiavi di lettura per gestire questo flusso continuo di “fake news”. I complotti si nutrono dell’incertezza della gente e sta a chi riveste un ruolo di mentore, di buon padre di famiglia, fornire spiegazioni semplici e facilmente assimilabili, capaci di combattere, smontando un complottismo malsano per la democrazia diventato ormai una mentalità sempre più difficile da sradicare.

Come ha poi sottolineato il politologo, esperto di geopolitica e politica estera italiana, Emilio Diodato, il fallimento delle istituzioni internazionali ha portato a un crollo della fiducia da parte dei cittadini. Esempi principe, secondo Diodato, sono l’Oms, tacciata dagli Usa di coinvolgimento in un complotto orchestrato dalla Cina per la diffusione del virus, e l’Onu, in seno al quale il tema della pandemia, quale problema di sicurezza internazionale, non è stato neppure discusso dal Consiglio di sicurezza che non ha adottato alcuna risoluzione sul punto.

La scarsa capacità operativa delle istituzioni internazionali fa però da contraltare a una riacquisita centralità da parte dello Stato. Ci troviamo davanti a uno dei maggiori effetti politici e culturali della pandemia, destinato a perdurare nel lungo periodo. Resta altresì fondamentale che gli Stati tornino a collaborare tramite una politica internazionale per evitare, quando avverrà la tanto attesa ripresa, che si instauri una “politica di potenza”, insostenibile nel lungo periodo, anche per una potenza come gli Usa.

E sono proprio gli Stati Uniti d’America a essere al centro di un incredibile cambiamento. È innegabile che l’America non rivesta più purtroppo il ruolo di un tempo. L’idea degli Usa multiculturali non ha più appeal. L’immagine che per anni è stata dipinta di un paese dove tutti sono uguali è crollata. L’America è un paese altamente diviso e polarizzato in cui i conflitti tra molteplici gruppi portatori di diverse istanze si riflettono irreparabilmente sulle istituzioni, concretizzandosi in un’incapacità di dialogo tra le due forze politiche tradizionali che non riescono più a mettersi d’accordo sui valori fondamentali.

È in questo nuovo panorama globale che la Cina si presenta come un modello alternativo vincente. Ma sarà davvero così? Assolutamente no! Un Paese la cui crescita è dovuta principalmente alla globalizzazione, nonostante la gestione magistrale della pandemia, non potrà che trovarsi in difficoltà nel gestire i processi di deglobalizzazione innescati dal Covid-19 e dovrà necessariamente ricorrere a nuove strategie. Quali saranno, resta tutto da vedere. www.IlGiornale.it

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