I 70 anni di Israele, Gerusalemme e quel conflitto mediorientale che dura da un secolo
Cade oggi il settantesimo anniversario della fondazione dello stato di Israele, proclamata ufficialmente il 14 maggio del 1948. Un anniversario concomitante con lo spostamento dell’Ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, che aprirà una nuova fase per gli equilibri politici di quel Medio Oriente che continua a essere, geopoliticamente e militarmente parlando, l’area più calda del globo. Ma dove e quando nasce la questione mediorientale? Quando nasce il rapporto privilegiato dello stato ebraico con il mondo anglosassone, quella special relationship che Donald Trump sembra voler ravvivare a costo di alienarsi i rapporti con l’establishment europeo, contrario alla rescissione dell’accordo sul nucleare iraniano? Una risposta a questi quesiti si può trovare in un brillante saggio dello storico ed analista Roberto Motta Sosa, recentemente edito da Historica Edizioni: “Medio Oriente conteso: turchi, arabi e sionisti in un conflitto lungo un secolo“.
Il libro è stato pubblicato nel 2017, in occasione del centenario della famosa dichiarazione Balfour, ossia il documento ufficiale dell’allora ministro degli Esteri inglese, Arthur Balfour, indirizzato, il 2 novembre del 1917, a lord Walter Rothschild in qualità di massimo rappresentate della comunità ebraica e sionista britannica. Nella missiva si prometteva la costituzione, al termine del primo conflitto mondiale allora in corso, di un “focolare nazionale ebraico” in Palestina. Fu da quella promessa che si avviò il percorso verso la costituzione dell’attuale stato israeliano, stato che, in prospettiva, rivestiva per i britannici un interesse strategico anche perché posizionato in prossimità del Canale di Suez, completato nel 1871.
Alla dichiarazione Balfour e alle sue conseguenze è dedicata un’attenta analisi all’interno del volume, che prende le mosse dalla Grande guerra e dal collasso dell’immenso Impero Ottomano (definito all’epoca “il grande malato d’Europa” per gli enormi problemi finanziari), così come all’accordo Sykes-Picot del 1916, un patto segreto anglo-franco-russo volto alla spartizione dei territori mesopotamici dell’impero turco al termine del conflitto. Un patto nel quale entrarono in seguito anche gli italiani. Alla diplomazia non solo istituzionale ma anche economica italiana è dedicata una parte interessante del libro, che nasce dall’analisi delle carte di Bernardino Nogara, all’epoca amministratore delegato della Società Commerciale d’Oriente (COMOR), emanazione della Banca Commerciale Italiana e membro del consiglio di amministrazione del Debito Pubblico Ottomano.
Ampio spazio nel saggio è poi dedicato al mondo arabo, in particolare a quella dinastia hashemita tutt’ora regnante in Giordania, che fu convinta dalla diplomazia britannica (lo scritto di Motta Sosa non dimentica di citare l’importante ruolo svolto da Lawrence d’Arabia) a prestare i propri servigi alla causa della coalizione alleata e all’acquiescenza alle condizioni della dichiarazione Balfour (in base all’accordo Faysal-Weizmann del 1919), in cambio della sovranità su un futuro stato unitario arabo che sarebbe dovuto sorgere dal Regno dell’Hegiaz. Patto poi tradito sia per la nascita di vari protettorati francesi e inglesi, sia perché l’emergente dinastia rivale degli Al Saud, protettori di quell’islam wahhabita oggi tristemente noto per il suo ruolo nell’ambito del fondamentalismo jihadista e delle sue filiazioni, conquistò l’Hegiaz, distruggendo i sogni di gloria degli hashemiti e avvalendosi tra l’altro della collaborazione di Harry Saint John Philby, un funzionario dei servizi segreti britannici convertitosi al wahhabismo. Proprio Philby ebbe un ruolo non secondario nell’origine di un’altra relazione speciale coltivata dall’erede materiale dell’impero britannico quale entità leader delle liberaldemocrazie occidentali, gli Stati Uniti: quella con l’Arabia Saudita, oggi insieme ad Israele sempre più un fondamentale alleato regionale di Washington. Un’alleanza che nasce con le concessioni petrolifere, da parte saudita, alla Standard Oil dei Rockfeller, concessioni all’origine di quella Arabian American Oil Company (ARAMCO) ancora oggi principale motore dell’economia nazionale del regno degli Al Saud.
Per i più curiosi, nel volume vi sono poi degli echi, scevri da qualsiasi semplificazione o tentazione complottista ma anzi originati da un’appassionata ed erudita analisi documentale, di una sorta di diplomazia parallela svolta dalle organizzazioni massoniche in quelle delicate fasi di spartizione degli ex domini ottomani. Spartizione che, oltre a costituire, con i suoi confini disegnati geometricamente, l’origine di molti di quei conflitti ancora vivi nelle cronache d’attualità, si intrecciava a una molteplicità di interessi particolari di natura finanziaria, strategica e anche energetica. L’autore infatti non manca di sottolineare come l’interesse per l’oro nero del Medio Oriente iniziò a emergere in concomitanza con la necessità di sostituire, da parte della Royal Navy britannica, il carbone quale fonte di carburante per la propria flotta. Oggi come ieri petrolio, religione e finanza costituiscono il miscuglio esplosivo del Medio Oriente. Un intricato sistema di interessi che, per essere meglio compreso, va studiato fin dalle sue radici.