«L’articolo 18 va cambiato. E alle imprese serve più flessibilità»
[photopress:Avv__Michele_Bignami.jpg,full,alignleft]La disoccupazione in Italia non è mai stata così elevata da 20 anni, fino al paradosso che nel nostro Paese un giovane su tre è senza un impiego e quasi un milione di famiglie non possono contare su alcun reddito mensile. A peggiorate il contesto, già ridotto in macerie dalla crisi e dalla Riforma Fornero, è stata la cura di sole tasse somministrata al “paziente Italia” dal governo Monti. Wall & Street ha quindi deciso di inaugurare una galleria di interviste, idealmente collegate alla Guida per trovare lavoro a 18, 25 e 50 anni da poco proposta con un notevole riscontro tra i lettori, ad alcuni esperti. Ognuno di questi indicherà, in base al proprio ambito di specializzazione, quale potrebbe essere la soluzione per uscire dall’impasse. Iniziamo, quindi, con Michele Bignami, socio dello studio legale Nctm e coordinatore del dipartimento Diritto del Lavoro.
Difficoltà provocate dalla recessione a parte, che cosa c’è che non va nel nostro ordinamento giuridico?
«Il mercato del lavoro è considerato dagli operatori, soprattutto esteri, ancora troppo “ingessato”. Tutti i giorni mi capita di spiegare ad un’azienda o ad un avvocato straniero cosa è la Riforma Fornero e che è un passo in avanti rispetto al passato; mi guardano increduli! C’è bisogno di maggior flessibilità; la Riforma Fornero è stata troppo timida. E’ solo un primo passo».
Quali correttivi apporterebbe a questa riforma rimasta incompiuta?
«Renderei meno cervellotico l’utilizzo di certe forme di lavoro flessibile; dall’apprendistato al cosiddetto “contratto di partita iva” (un obbrobrio terminologico a cui fatico ad abituarmi)».
Sono necessarie nuove modifiche all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori? Deve essere mantenuto oppure rimosso?
«Assolutamente si: il concetto di “manifesta insussistenza” del motivo economico sembra fatto apposta per creare ampie aree di incertezza; ciò si traduce in esiti imprevedibili e,quindi, iniqui delle cause. Poi abolirei in toto la riforma sul processo relativo ai licenziamenti; nessuno ne sentiva l’esigenza ed è francamente piena di lacune. In tutti i convegni giudici e avvocati di tutti gli schieramenti sono concordi. Basti pensare che nessuno ne rivendica la paternità».
Che cosa stanno chiedendo le imprese?
«Credo che le imprese in questo momento stiano volgendo la loro attenzione più verso gli economisti che non ai legislatori. Un costo del lavoro meno elevato in termini fiscali e contributivi li aiuterebbe».
Quale ritiene sia il modo migliore per coniugare la necessità di “sicurezza” di cui necessitano le famiglie con la “flessibilità” richiesta dalle aziende per competere (Flexisecurity, Modello danese …)?
«Flexisecurity è uno dei concetti più utilizzati negli ultimi anni, a riprova dell’importanza del tema; ma nessuno ha mai chiarito da chi dovrebbe essere finanziata. Le imprese ritengono dallo Stato e lo Stato dai privati. Ne l’uno negli altri stanno però molto bene, mi pare. Certo, gli ammortizzatori sociali oggi esistenti e l’utilizzo effettivo che se ne fa presenta aree di notevole miglioramento».
Perché la formazione in Italia è gestita in modo così disarticolato? Le risorse europee si disperdono tra le Regioni e non c’è un coordinamento? Perché, anziché coinvolgere il settore privato, gli si fa svolgere un ruolo di supplenza?
«Credo che dietro la formazione si muovano dinamiche non sempre comprensibili ad un osservatore razionale».
Concorda sull’opportunità di scommettere sull’outplacement, defiscalizzando gli oneri della formazione continua, anziché alimentare sussidi passivi come Cigs e mobilità? Quali sarebbero i vantaggi?
«L’outplacement è senz’altro una grande opportunità per il mercato del lavoro; in altri Paesi è sviluppatissimo. In Italia è in forte crescita e ci sono ancora grandissimi spazi di miglioramento».
La contrattazione aziendale dovrebbe essere reimpostata in modo da premiare il merito?
«Assolutamente si; il merito è l’altra faccia della competitività. Vince chi riesce ad essere più competitivo. Purtroppo parlare di merito nel nostro Paese è difficilissimo. Sembra contrastare con le matrici culturali più radicate della nostra società. Il merito si affermerà, quando saranno effettivamente rimossi gli ostacoli per una competizione alla pari. La realtà è che il sindacato (di tutti gli schieramenti) l’ha capito, ma non ha sempre la forza di ammetterlo davanti ai propri iscritti».
Che cosa si può fare per avvicinare l’educazione scolastica/universitaria e la formazione, che oggi continuano a viaggiare su binari separati?
«E’ un tema importantissimo. L’educazione scolastica è sempre più distante dal mondo del lavoro; sarebbe necessario che gli insegnanti per primi fossero messi in grado di aggiornarsi. Al contrario, continuano a lavorare su programmi vecchi. Gli studenti dovrebbero, poi, poter alternare allo studio momenti di inserimento nel mondo del lavoro; magari all’estero, cogliendo anche l’opportunità di imparare almeno una lingua straniera. Sono appena stato ad Amsterdam; i conduttori di tram parlano un ottimo inglese. In Italia ci sono, ad esempio, molti avvocati (tanto per fare un esempio) che non sono in grado di lavorare in alcuna lingua straniera».
Wall & Street